Viviamo in tempi bui nei quali “lo spazio pubblico si oscura” (Hannah Arendt, L’umanità in tempi bui, Cortina editore, p. 57). È in tali periodi che bisogna affinare la vista per riconoscere il male. Di solito si evita questo termine perché bene e male sarebbero del tutto relativi. Si preferisce la distinzione tra buoni e cattivi: ovviamente i cattivi sono gli altri. Ma le cose stanno diversamente. Da una parte non si può dire quanto i buoni siano davvero tali, né si può identificare definitivamente qualcuno come cattivo, vista la fluidità e la complessità del cammino di ognuno. D’altra parte non va dimenticata la differenza tra bene e male. L’uno fa fiorire tutti gli esseri. L’altro è menzogna, iniquità, infelicità, distruzione. Ci sono casi nei quali è difficile distinguere, ma la differenza oggettiva rimane. È sulla scelta tra i due che si gioca la nostra responsabilità. Il campo di battaglia tra bene e male siamo noi: a seconda della direzione che prendiamo ci umanizziamo o ci degradiamo nella disumanità.
Quando bambine e bambini muoiono di sete e di fame e molti annegano nel mar Mediterraneo, questo è male. Quando finanziamo i lager libici, questo è male. Quando la guerra viene preparata e fatta esplodere ovunque torni comodo ai signori della geopolitica, questo è male. Quando la politica diventa un circuito fatto di cialtroneria e prevaricazione, con le classi subalterne che, deluse da una finta sinistra, votano le destre fasciste, razziste, nazionaliste e liberiste, questo è male. Quando tutto viene privatizzato così da inibire ogni respiro comunitario all’esistenza delle persone e alla società intera, questo è male. Quando il sistema economico globale è così perverso da aver tacitamente trasformato la corsa ai profitti in un mero pretesto, perché il sistema vigente dà prova di muoversi soprattutto verso lo scopo ultimo della morte del pianeta e di chi lo abita, questo è male. Quando interiorizziamo la disumanizzazione e ci adattiamo a sopravvivere senza dedicarci a qualcosa che attenga al bene comune, questo è male. Ed è stupidità che blocca il pensiero, chiude il cuore e distrugge l’anima, la fonte interiore della libertà.
Lo psicologo canadese Bruce Alexander (nel libro Globalization of Addiction. A Study in Poverty of the Spirit, Oxford University Press) ha mostrato che il sistema del capitalismo globale, sradicando le persone dal loro mondo comunitario e dal rapporto con un senso per vivere, le spinge verso le dipendenze, che fanno da surrogato alle radici necessarie per una vita buona. Si può diventare dipendenti non solo dall’alcool o dalle droghe, ma pure dalla tecnologia, dal lavoro, dal cibo, dall’attività fisica o da qualsiasi cosa sembri riempire il vuoto per offrire un terreno in cui radicarci. La più tenace delle dipendenze è quella che ci incatena alla rassegnazione.
Non voglio dire che siamo per nove decimi al tracollo, con solo un decimo di spiraglio per la salvezza. Voglio dire che siamo al bivio tra due possibilità al 50 %: per metà, in una società siffatta, siamo rovinati, ma per l’altra metà uscirne dipende da noi. L’oppressione diventa totale solo se ci rassegniamo, altrimenti la vittoria del male organizzato è impossibile. Perché possiamo comunque rimanere umani, dare vita a relazioni accoglienti, generare forme organizzative giuste nell’economia e nella politica.
È una legge della vita quella che chiede di rispondere al degrado con la bellezza, all’oppressione con la libertà collettiva, al conformismo con la creatività, alla violenza con l’energia della nonviolenza. Non è la “resilienza”, è la forza della dignità. Proprio adesso che ci sentiamo sprofondare in tempi bui è tempo di rialzarci per seguire la luce visibile solo a chi coltiva il desiderio di pace e di giustizia. E se la strada non si vede, allora iniziamo ad aprirne molte avendo cura di farlo in modo da convergere con le strade di tutti gli altri che, come noi, sognano la vita vera e sono pronti ad anticiparne almeno un frammento qui e ora.
Roberto Mancini
articolo pubblicato sul numero di ottobre 2022 di AltreƏconomia
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