Prima cosa: accogliere. Di fronte all’ennesima guerra giocata sulla pelle della popolazione civile, che in pochi giorni ha generato due milioni e mezzo di profughi dall’Ucraina, si è attivata immediatamente una gigantesca rete di solidarietà fattiva e di protezione sociale.
Così deve essere, così dovrebbe sempre essere. Ma che domande dovremmo farci di fronte all’apertura immediata di imponenti canali di ingresso legali, quando riecheggia ancora la richiesta fatta a Bruxelles, da dodici Stati, di alzare altri muri e barriere elettrificate, come se non bastassero i sessantatré già esistenti ad aver sfigurato il volto della fantomatica casa comune europea? Quando la stessa Ucraina, appena tre mesi fa, tuonava contro i migranti dalla Bielorussia e per bocca del suo Ministro dell’Interno, Denys Monastyrsky, proclamava in Parlamento che si sarebbe aperto il fuoco contro chiunque provasse a varcare i confini, annunciando la costruzione di una barriera di 2500 chilometri?
Io, bianco, europeo, comunitario, una domanda me la pongo: se fossi africano, un africano subsahariano o maghrebino, di fronte a questo slancio di generosità verso i profughi ucraini, come mi sentirei? Che cosa penserei? Se fossi un asiatico, siriano, iracheno, yemenita, afgano o altro, che cosa proverei nel vedere cotanta magnanimità?
All’inizio, certo, un sentimento di stupore. Famiglie, case, risorse, deroghe a visti e permessi di soggiorno. Tutto un agitarsi di braccia aperte e sorrisi smaglianti.
Fantastico! Ma allora si può fare! Tutto quello che è stato sempre negato a milioni a persone delle aree reiette del pianeta, ecco realizzarsi in tempo reale. Non più botte, filo spinato, fame e ripugnanza ma calore, cibo, empatia, benevolenza. Poi… subentrerebbe lo sbigottimento. Ma come è possibile? Ma se in questi stessi giorni, appena qualche chilometro più a nord, nella foresta di Kuznica, esseri umani inseguiti da cani e da cacciatori di uomini vengono percossi brutalmente e alcuni muoiono di fame e di freddo! Ma come è possibile? Se a Moria, a Bihac, a Ceuta, a Bani Walid, nel Mediterraneo, i sogni di libertà e riscatto di tante persone disperate in fuga terminano senza soluzione di continuità in campi di prigionia e tortura e spesso con la morte!
E poi, dentro di me, monterebbe un risentimento rabbioso, un furibondo e sacrosanto odio viscerale nei confronti delle politiche coloniali e razziste, che separano il bene dal male, dei dispositivi predatori di “accumulazione per espropriazione” del capitale globale contemporaneo.
Se fossi uno di quegli studenti diversi per colore e nazionalità, bloccati allontanati a colpi di fucile e lasciati indietro, durante l’evacuazione, dal nostro umanitarismo selettivo e discriminatorio, perché “prima gli ucraini e i bianchi”, che rischiano di non potere ottenere uno status legale di soggiorno nei paesi dell’Unione Europea in cui dovessero arrivare, come elaborerei l’enorme violenza perpetrata da questa doppia morale?
Come in passato, siamo di nuovo verso l’abisso. Vogliamo tornare ad essere “umani” o continuare a fare gli “umanitari”?
Alessandro Fulimeni
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