Le nuove parole aprono nuovi mondi e nuove prospettive di pensiero e di azione, ci spiega la filosofa della scienza Elena Gagliasso nella sua riflessione sul concetto di con-dividuo. E d’altro canto una parte importante della elaborazione filosofica e culturale del ‘900 si è confrontata con l’importanza delle parole e del linguaggio. Un linguaggio che è storicamente e culturalmente caratterizzato, che nasconde dietro di sé visioni del mondo a volte anche completamente diverse tra loro, che condiziona il modo di vivere e di immaginare il mondo delle persone che appartengono a culture determinate.
La nostra cultura occidentale ha fondato il proprio agire nel mondo e il proprio interpretare il mondo, sul concetto di individuo, una unità compatta, letteralmente non divisibile (e non condivisibile), immutabile nella propria identità, sempre uguale a se stessa e impegnata a distinguersi dalle altre unità individuali. Elena Gagliasso partendo dalla sua prospettiva filosofico-scientifica e l’antropologo Francesco Remotti indagando i fondamenti della tradizione occidentale attraverso un approccio multi-prospettico intrinseco all’antropologia culturale, provano ad offrirci una prospettiva completamente diversa dove somiglianze, differenze, connessioni e trasformazioni sono alla base di tutto ciò che esiste.
Secondo Elena Gagliasso (nel suo articolo “Condividui in evoluzione: quale filosofia?”) una prima elaborazione a favore del superamento del concetto di individuo è data innanzitutto dalla difficoltà di concettualizzazione che ci presentano “realtà biologiche, costitutive dell’esistenza e sotto gli occhi da sempre, che non hanno mai avuto accesso a una loro nominabilità e che quindi restano precluse alla riflessione. Un caso esemplare di limpida evidenza è quell’unità composta da madre e feto, per una durata di tempo limitata e diversa a seconda delle specie di mammiferi, che poi, a termine del processo (di gravidanza/sviluppo) si divide.” Bisogna tuttavia allargare lo sguardo alla “simbiontologia, la recente branca della microbiologia che studia le coabitazioni simbiontiche tra batteri e organismi eucarioti, noi compresi” e alle straordinarie ricerche della microbiologa Lynn Margulis secondo la quale non “l’individuo-organismo, non i singoli geni, né le specie isolate, ma le convivenze proto-cooperative” sono protagoniste della storia evolutiva della vita. “Ingenti masse di ‘conviventi’ di molteplici specie abitano funzionalmente gli apparati interni e di superficie dei corpi e cooperano con questi”. Si chiede allora Elena Gagliasso “È possibile chiamare ancora ‘individuo’ un tale compositum di generi e specie endosimbiontici che con-vivono con un organismo maggiore? È possibile fondare su ciò principi individuazione? (…) Una volta aperto il vaso di Pandora degli altri mondi conviventi e cooperativi all’interno degli organismi, solo una consuetudine linguistica può spingerci a definire tale realtà plurispecie, integrata e cooperante in un flusso continuo dai primordi dell’evoluzione a tutt’ora, come composta da ‘individui’”. E’ necessario dunque andare oltre sia a livello terminologico che concettuale per descrivere e comprendere una realtà così complessa, elaborando “un concetto che colga insieme la caratteristica di convivenza e coevoluzione”, “un termine che descriva il nostro essere ‘tanti in coabitazione e cooperazione funzionale’” sia all’interno di sé e del proprio organismo (ammesso che sia ancora corretto parlare di organismi) sia nelle relazioni con ciò che è esterno a noi. Ecco emergere il concetto di con-dividuo.
È proprio la sfera relazionale esterna a ciascuno di noi che interessa principalmente, anche se non esclusivamente, Francesco Remotti nel suo avvincente “Somiglianze. Una via per la convivenza”. L’argomentazione dell’antropologo italiano è complessa, articolata, efficace e parte dalle origini della cultura occidentale nel tentativo di recuperare una tradizione perduta o perdente. Nell’omonimo dialogo platonico il filosofo Protagora discutendo con Socrate in merito alla somiglianza tra giustizia e santità afferma “in certo modo ogni cosa è simile a ogni altra. È possibile, infatti, che il bianco in qualche modo somigli al nero e il duro al molle e così le cose che sembrano completamente opposte tra loro.” Tutte le cose in qualche modo si somigliano e quindi tutte le cose (se si somigliano solo in qualche modo) al tempo stesso sono somiglianti e differenti tra loro e dunque interpreta Remotti “la somiglianza è impossibile se non si prevede anche la differenza (…) tutto il mondo si presenta come un immenso e intricato sodif (so-miglianze + dif-ferenze)”.
Sembra quindi che non ci possa essere somiglianza senza differenza e reciprocamente non ci possa essere differenza senza somiglianza. Ora il problema è che tutta la tradizione culturale e storica occidentale ha valutato negativamente questa prospettiva legata alla relazione tra somiglianze e differenze, considerandole come fonte di illusorietà, confusione, degenerazione e proponendo in contrapposizione criteri di riferimento certi, stabili, perfetti, immutabili, come le idee di Platone, oppure chiari, trasparenti, incontrovertibili, come i principi logici di identità e non-contraddizione di Aristotele. E qui sta il punto fondamentale: se qualcosa è perfetta, immutabile, identica a se stessa, sarà anche unitaria e chiusa nella sua in-dividualità; se invece è una mescolanza di sodif, somiglianze e differenze, e partecipa a una sostanza comune con gli altri esseri, sarà composita e aperta alla relazione e al mutamento nella sua con-dividualità. Remotti ricostruisce così una straordinaria genealogia dell’individualismo occidentale (che parte dal pensiero greco antico e giunge sino a noi), cercando di individuarne e smontarne i presupposti. Particolarmente rilevanti risultano in questo senso le analisi di Max Horkheimer e Theodor Adorno che nel 1966 in “Lezioni di Sociologia” per criticare il concetto di individuo si servono sia della convivenza che dei rapporti tra somiglianza e differenza sostenendo che “il concetto di individuo come atomo sociale ultimo” viene messo in discussione dal fatto che la vita umana è nella sua essenza vita insieme, convivenza: “se nel fondamento stesso del suo esistere l’uomo è attraverso altri, che sono i suoi simili, e solo per essi è ciò che è, allora la sua definizione ultima non è quella di una originaria indivisibilità e singolarità, ma piuttosto quella di una necessaria partecipazione e comunicazione agli altri. Prima di essere individuo, l’uomo è uno dei simili, si rapporta ad altri prima di riferirsi esplicitamente a se stesso, è un momento delle relazioni in cui vive prima di poter giungere eventualmente ad autodeterminarsi.” Altrettanto disorientanti e significative sono le ricerche dell’antropologo francese Maurice Leenhardt il quale studiando i Kanak della Nuova Caledonia scopre nella prima metà del ‘900 che per i membri di questa popolazione “l’essere umano non è una sostanza individuale a cui eventualmente aggiungere relazioni sociali” ma “un fascio di relazioni”, il soggetto è “composto da tutte le relazioni in cui si trova coinvolto e di cui è parte”. Il limite di queste riflessioni secondo Remotti è che non riescono a concettualizzare adeguatamente l’alternativa alla dimensione individuale: si parla allora come fa l’antropologa inglese Marylin Strathern analizzando gli studi di Leenhardt, delle persone Melanesiane concepite dualisticamente sia come dividuali (scomponibili) che come individuali (non scomponibili), ma si tratta di soluzioni terminologiche che sono ancora troppo influenzate dal nostro punto di vista occidentale e individuo-centrico. È necessario uno scarto, un salto in avanti che permetta di mantenere le partecipazioni e le relazioni plurali con “un po’ di coerenza, di continuità, di integrità, di riconoscibilità del soggetto” scrive l’antropologo italiano e questo può accadere solo con il termine con-dividuo che sintetizza in modo unitario le somiglianze e le differenze che compongono costitutivamente ciascun essere.
Il titolo del libro di Remotti contiene l’accenno ad “una via per la convivenza” che rimane l’orizzonte ultimo verso il quale secondo l’autore dovremmo muoverci. Questo orizzonte non viene indagato e approfondito nel testo che è invece tutto dedicato a costruire le premesse che possono portare su questa strada, somiglianze-differenze e con-dividualità. Scrive l’antropologo italiano: “il con di con-dividuo indica infatti non una sostanza bensì un compito una funzione di coordinamento e di armonizzazione di una molteplicità. L’io non è più io è un noi è la noità (…) È un assemblaggio, una composizione, un intreccio.” Ecco che dalla riflessione sul con-dividuo nasce anche l’esigenza di una nuova prospettiva relazionale, politica, aperta al contributo di una pluralità di soggetti che guarda nella direzione della convivenza. Si fa strada il concetto di noi collettivo delineato da Margaret Gilbert.
(2/5 continua)
Fabrizio Leone
Devi essere connesso per inviare un commento.