Sarebbe interessante e anche produttivo procedere a un percorso di ricostruzione della emersione e della rivalutazione del concetto di cura nel pensiero del Novecento. È necessario, tuttavia, concentrarsi sugli aspetti che nel concetto di cura risultano più rilevanti e prolifici per la prospettiva etica e politica. Diventa pertanto decisiva la scoperta della cura cioè il suo emergere nella fenomenologia delle relazioni umane all’interno del contesto culturale a cui apparteniamo, cioè, in senso molto lato e ampio, occidentale.
Da questo punto di vista un elemento molto interessante della riflessione della psicologa americana Carol Gilligan è offerto dal metodo da lei utilizzato nella sua ricerca. La studiosa comincia il suo percorso tra gli anni ’60 e ’70 muovendosi all’interno delle indagini sulla evoluzione della moralità nell’essere umano, approdando a risultati di natura profondamente diversa.
In realtà sarebbe meglio parlare di un metodo non semplicemente utilizzato ma scoperto durante la sua ricerca perché Carol Gilligan parte con delle domande in qualche modo preconfezionate, che rispecchiano la volontà da parte dell’intervistatore di individuare determinate risposte rispetto allo sviluppo della moralità tra infanzia ed adolescenza. E poi nel corso delle sue numerose interviste si accorge di una cosa straordinaria: si accorge che l’elemento centrale della sua ricerca è la voce delle persone intervistate che hanno evidentemente bisogno di parlare in modo più ampio, libero e diffuso rispetto ai temi posti attraverso i quesiti e quindi l’azione fondamentale del ricercatore deve essere l’ascolto. Emergono infatti cose non previste dalle domande, punti di vista diversi, una varietà della realtà umana molto più ricca, articolata e sorprendente rispetto all’impostazione della ricerca. Emerge in modo particolare il punto di vista femminile, un punto di vista culturalmente escluso, culturalmente sottovalutato, culturalmente taciuto, una voce diversa. “In a different voice”, con voce diversa, dice appunto il titolo di questo straordinario libro del 1982 che ha cambiato il modo di vedere e di fare la ricerca psicologica e ha cambiato anche il modo di vedere la sfera morale dell’essere umano. In questa prospettiva purtroppo il titolo italiano, “Con voce di donna”, è profondamente traditore, ingannevole, fuorviante e riduttivo rispetto alle intenzioni e agli obiettivi di Carol Gilligan: a emergere infatti non è soltanto la voce delle donne, ma è un altro modo di vedere il mondo di cui le donne sono portatrici perché costrette tradizionalmente e culturalmente a sentire e pensare in quel determinato modo. Questo modo di sentire, vedere, pensare e agire il mondo è la prospettiva della cura che non corrisponde al punto di vista specificamente femminile come se ci fosse una predisposizione biologica alla cura da parte della donna che nell’uomo non c’è. No, per Carol Gilligan le donne sono state storicamente e culturalmente costrette a custodire la prospettiva della cura che invece è propria di ogni essere umano al di là della sua determinazione sessuale o di genere. Sono state costrette a custodirla perché la dimensione privata e familiare è una dimensione in cui l’etica della cura può essere praticata, si può sviluppare, può fiorire liberamente. Nella sfera pubblica, la sfera culturalmente maschile, l’etica della cura non può trovare spazio, non possono trovare spazio le emozioni, le passioni, i sentimenti, l’empatia; si affermano invece la forza, l’equità, la giustizia, l’imparzialità, la razionalità, il distacco, il calcolo, tutti elementi che conosciamo bene come le caratteristiche fondamentali della tradizione del pensiero occidentale antico e moderno. Lo strumento voce è particolarmente rilevante e ha bisogno di un analisi approfondita. Si tratta infatti di un elemento composto in cui corpo e psiche sono strettamente interconnessi tra loro. Nella voce c’è sia l’elemento spirituale perché la voce esprime i nostri pensieri, il modo attraverso il quale interpretiamo noi stessi e il mondo, sia l’elemento materiale legato alla corporeità perché la voce è corda vocale, elemento fisiologico. Il corpo è il grande rimosso della tradizione occidentale da Platone a Cartesio fino a Freud che finalmente attribuisce a tutti gli aspetti della vita corporale dell’essere umano un luogo dell’anima e riconosce un ruolo psichico di primaria importanza alle pulsioni e alla dimensione istintiva. Ancora oggi tuttavia il nostro modo comune di pensare il corpo è dualistico, il corpo è antagonista dell’anima, il corpo è qualcosa (un oggetto?) di cui possiamo disporre come uno strumento della tecnica come se fosse un utensile a nostra disposizione e soprattutto a disposizione della nostra anima. Ascoltare il corpo ed elaborare attraverso la voce i suoi bisogni le sue pulsioni, i suoi desideri, le sue emozioni, i suoi sentimenti, fa emergere una parte potenzialmente nascosta della nostra personalità, nascosta agli altri e forse anche a noi stessi. Questo è uno dei motivi per il quale la dimensione della cura, basata sulla valorizzazione della nostra parte istintiva e irrazionale, si contrappone inevitabilmente a quella della giustizia basata sulla imparzialità, sulla razionalità e sul calcolo. E invece attraverso le interviste di Carol Gilligan emerge proprio questo, soprattutto attraverso la voce delle donne ma anche attraverso la voce degli uomini, emerge quella parte emotiva, sentimentale, che è stata tradizionalmente rimossa e considerata come inferiore, roba da donne, roba da dimensione privata: prendersi cura, preoccuparsi dell’altro, fare esercizio di empatia, decidere sulla base delle esigenze di un insieme di persone, non la cosa più giusta in astratto o in assoluto (la moralità pubblica, la moralità degli uomini, la moralità basata sul calcolo e sulla gerarchia), ma la cosa più ragionevole, un compromesso a vantaggio del bene di tutto il gruppo. La voce e il pensiero servono a questo, servono a costruire un ragionamento sulla base di emozioni e sentimenti, mettono insieme la parte razionale e la parte istintiva.
La “voce differente” di cui parla l’autrice non è quindi necessariamente ed esclusivamente quella della donna; è quella che privilegia, ad esempio, la relazione rispetto alla competitività; la concretezza rispetto all’astrazione, la comprensione rispetto alla virilità, la cura rispetto alla giustizia calcolatrice, e sebbene nella civiltà occidentale essa sia caratteristica delle donne più che degli uomini, la liberazione di entrambi i generi dalla rigidità dei ruoli tradizionali della società patriarcale (ruolo di cura per la donna; ripiegamento individualista su sé stesso per l’uomo) passa attraverso la valorizzazione, da parte degli uomini come delle donne, di quella “voce” che rappresenta, in definitiva, un modo diverso di parlare della condizione umana, capace di decostruire questi dualismi socialmente costruiti e mantenuti. Scrive Carol Gilligan ne La virtù della resistenza (Joining the resistance, 1991): «Uno degli aspetti più tragici della civilizzazione è che le norme morali ci hanno allontanato da ciò che solo ora riconosciamo essere la cifra della nostra umanità… Indagando su tale questione sono giunta a considerare l’etica della cura, radicata nella voce e nelle relazioni, come un’etica della resistenza che ha la virtù di contrastare l’ingiustizia e la riduzione al silenzio. Si tratta di un’etica propria degli esseri umani, essenziale alla democrazia e al funzionamento della società globale. Più precisamente e in termini più controversi, si tratta di un’etica femminista che storicamente lotta per liberare la democrazia dal patriarcato. (…) In una cornice patriarcale la cura è un’etica femminile (…) rappresenta una voce differente poiché associa la ragione all’emozione, la mente al corpo, il sé alle relazioni, gli uomini alle donne, resistendo alle divisioni che sostengono l’ordine patriarcale. (…) In una cornice democratica la cura è un’etica dell’umano (…) Prendersi cura esige attenzione, empatia, ascolto, rispetto (…). È un’etica relazionale basata su una premessa di interdipendenza. Non è altruismo». Un’etica relazionale, propria dell’umano, che si sviluppa pienamente in un contesto democratico e che mette insieme la prospettiva della cura e la prospettiva della giustizia attraverso la chiave di volta della responsabilità, cioè quel prendersi cura quel farsi carico non solo del proprio destino, non solo del destino degli altri, ma anche e necessariamente di tutti gli elementi viventi e non viventi con i quali si entra in relazione. L’etica della cura può dispiegarsi in maniera autentica solo nella dimensione politica, solo superando le differenze culturali. Vediamo allora che mentre la società tradizionale patriarcale era fondata su un soggetto autonomo, a se stante, inserito all’interno di una gerarchia di potere fortemente strutturata, il prendersi cura invece muove dalla concezione di un soggetto relazionale che interagisce in rete con tutti gli altri elementi che costituiscono il mondo che abita. Per dirla con Francesco Remotti ed Elena Gagliasso, la società patriarcale è fondata sull’individuo mentre quella democratica, aperta è fondata sul con-dividuo. A fare la differenza è l’assunzione di una responsabilità rispetto a tutti gli altri esseri viventi e non viventi, e questa assunzione di responsabilità, questo farsi carico, questo prendersi cura della permanenza, della sopravvivenza e del benessere degli altri, la potremmo chiamare con Margaret Gilbert un impegno congiunto che fa nascere un noi collettivo.
(continua 4/5)
Fabrizio Leone
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