Tra i tavoli tematici regionali del movimento Dipende da Noi quello su Cultura, scuola, università, formazione è il più attivo e si è incontrato con regolarità per predisporre, in questi mesi, un corposo documento sulla scuola.
L’anno scolastico si è concluso con uno sciopero del personale scolasti e, pertanto, proponiamo due contributi prodotti da alcuni dei partecipanti del gruppo di lavoro.
Contributo di Alessandra Catalani e Giuseppe Buondonno
Lo sciopero della scuola dello scorso 30 maggio, contro il decreto 36/2022, ha visto una partecipazione di circa il 20% tra personale docente e ATA, di questi tempi e per tanti motivi, il dato, di circa 15 punti percentuali superiore all’ultima occasione analoga, è un successo, perché molto più ampia è l’adesione, da parte di lavoratori e lavoratrici che, per ragioni economiche, non possono scioperare.
Si dice: le motivazioni? Proviamo dunque ad elencarle, sintetizzando ciò che più ha deluso e indignato. Un contratto in attesa di rinnovo e il disegno di sottrarre la materia “scuola” alla contrattazione; scatto di anzianità del 2013 dimenticato e perso; taglio previsto di 9600 posti entro il 2031, con il pretesto del calo demografico (quando si doveva, piuttosto, cogliere al volo l’occasione per portare finalmente il numero di alunni in ogni classe ai livelli indicati come ottimali da pedagogisti e psicologi per un processo di apprendimento/insegnamento di qualità); il progetto di un sistema di formazione dei docenti diseguale, per cui alcuni dovranno formarsi obbligatoriamente (i neo assunti) e altri, tutti gli altri, a pezzi o per niente; un percorso per l’immissione in ruolo dei docenti precari che sembra una corsa ad ostacoli, volta più a scoraggiare, che a stimolare e preparare seriamente, chi sceglie questa preziosa professione. Il tutto finanziato in buona parte con la carta del docente: si toglie a tutti per dare a pochi.
Per capire la logica che muove il legislatore si può ingrandire, tra quelli brevemente richiamati, il tassello della formazione in servizio incentivata (e valutazione degli insegnanti). Per i docenti in ruolo la formazione è pensata così: in ogni scuola prenderà avvio, da settembre prossimo, la corsa, di fatto uno sgomitare, volta ad accedere a nuovi corsi gestiti da una Scuola di Alta Formazione centralizzata, che è il soggetto meglio disegnato del decreto (sono descritte anche le tabelle per pagarne lautamente i funzionari, di area INDIRE e INVALSI: anche 250.000 euro, cifre da capogiro). Del totale dei docenti desiderosi di abbeverarsi alla Scuola di Alta Formazione – gli autocandidati – solo il 40 per cento sarà ammesso a partecipare; il legislatore dimentica che gli altri (quelli che non si candidano e il 60% escluso) rimangono ad insegnare tutte le mattine. Gli eletti, il numero di quelli su cui lo Stato investe e che ogni scuola sceglie perché “figure necessarie ai bisogni di innovazione previsti nel PTOF, nel RAV e nel PdM”, si formano per tre anni, sostenendo tre esami: possono essere rimandati, bocciati o raggiungere la meta agognata. In questo ultimo caso, avranno una una tantum “di carattere accessorio” (sic!). L’intenzione è chiara: i migliori, i necessari, i meritevoli sono un numero ridotto (il 40%, ripeterlo può giovare, di un numero già basso) e sono sempre quelli; si spera che, a pioggia, la loro superiorità formativa piano piano migliorerà … l’azienda. Perché è chiaro che un disegno di questo tipo con una scuola come comunità educante non ha nulla a che fare. In realtà, il modello è di nuovo aziendalistico, la grammatica competitiva, l’orizzonte neoliberista. La musica è la stessa che si suona dal 2008, i cui risultati si vedono bene in termini di, sempre più diffusa, ignoranza linguistica, matematica, scientifica, storica e geografica.
Questo decreto 36, per cui giustamente insegnanti e ATA il 30 maggio scorso hanno scioperato, è ora in fase di conversione: taglia invece che investire; mortifica i docenti invece che riconoscere loro diritti e soggettività culturale; cancella la contrattazione stabilendo che d’ora in poi la legge interviene sulla scuola, senza confronto con le parti sociali e con gli attori.
Ricapitolando, esso dà un ulteriore severo colpo alla dignità della scuola, ponendosi perfettamente in linea con gli interventi che vanno da Luigi Berlinguer a Renzi. È necessario capire bene l’intenzione di decostruzione ulteriore della scuola pubblica, come scuola democratica e di qualità, che è in atto. Certo, adesso che al governo c’è il Professore bravissimo che ha studiato benissimo e ora che ministro all’Istruzione è un rettore, qualcuno aveva sperato (illuso!) che di scuola il governo capisse qualche cosa in più. Ma il capitalismo è più forte, bellezza, e continua a suggerire che una scuola seria è un sogno che non ci possiamo permettere. Eppure così non è e i giovani meritano altro: chiediamo un contratto che rivaluti tutte le retribuzioni; l’assunzione di più insegnanti; la riduzione del numero delle alunne e degli alunni per classe; investimenti consistenti per tutta la scuola e un sistema di formazione dei docenti per tutte e tutti, serio, chiaro, di qualità. La strada per una scuola migliore e ritrovata passa per queste vie.
Contributo di Ferdinando Ciani
Il 30 Maggio il mondo della scuola è entrato in agitazione sulle proposte governative di assunzione, formazione e rinnovo contratti. Contratti fermi al 2018 con un’offerta di adeguamento salariale considerata inaccettabile (gli insegnanti italiani sono tra i meno pagati in Europa), assunzioni che penalizzano i precari in coda da anni, formazione meritocratica, nessun passo avanti nel problema delle classi pollaio.
I numeri della astensione dal lavoro sono ritenuti significativi dai sindacati anche se questa ha interessato neppure il 20% degli insegnanti.
In Francia lo sciopero indetto dalla Scuola contro la burocrazia delle misure anti COVID decise dal governo ha raggiunto quasi il 70%.
Nelle scuole italiane si è sempre fatto fatica a far passare tra gli insegnanti l’idea dello sciopero; l’ultimo ben riuscito forse risale alla “Buona Scuola” di Renzi. Ma perché, nonostante siano i più bistrattati d’Europa, gli insegnanti italiani fanno fatica a far valere le loro giuste rivendicazioni? Occorre chiedercelo per capire cosa si cela nel mondo della scuola, cosa significa quell’80% di insegnanti che raramente alza la testa.
Senso supremo del dovere e della missione educativa, rassegnazione o qualcos’altro?
Ci sembra di poter considerare improbabile la prima ragione essendo, di logica, la mobilitazione di maestri e professori normalmente finalizzata proprio ad una più efficace offerta educativa-formativa ai giovani e alle loro famiglie. Si perdono, in fondo, poche ore di lezione e per migliorare la Scuola.
La rassegnazione invece è da tempo presente negli insegnanti, consapevoli che chi ci governa non ha molto a cuore il campo educativo come dimostrano le continue alternanze al vertice dell’Istruzione negli ultimi 20 anni mai seguite da un reale cambiamento di rotta nella politica scolastica. La qualità dell’insegnamento è divenuta per chi ha governato il paese un obiettivo secondario, lasciando campo libero alla Scuola della burocrazia, una scuola che non richiama dedizione né scelte per vocazione o per attitudine; fare l’ insegnante diviene per molti (ma non per tutti fortunatamente) un mestiere come un altro che concede spesso tempo anche per un secondo impiego.
Il problema allora appare ben più grande. La scarsa sensibilità sindacale degli insegnanti è solo un sintomo, la punta di un iceberg che segnala un pericolo più grande.
Occorre puntare sulla qualità della Scuola, ridare senso al lavoro degli insegnanti, de burocratizzare le loro funzioni, con una paga adeguata ad un impegno scolastico consistentemente commisurato sui bisogni pedagogici e didattici degli studenti ( si pensi ad esempio al tempo richiesto da una valutazione dialogica rispetto all’attribuzione di un voto). Molti insegnanti già lo fanno autonomamente attraverso una ricerca personale faticosa, quasi mai supportata dalla struttura scolastica. Molti ancora no. Vorremmo vedere l’avvento di un Ministro che comprenda la necessità di tale cambiamento. Ma la passività degli insegnanti gioca purtroppo a favore dello status quo.
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