La speranza può essere un freno o una spinta alla trasformazione. Non ricorderemo mai abbastanza che il mondo delle nostre emozioni, le convinzioni più profonde e gli orientamenti esistenziali, concorrono in maniera decisiva a dare forma alle questioni etiche e politiche che ci appassionano. Se nutriamo una visione della vita estremamente negativa, dove tutto ci pare perduto e non alberga alcuna fiducia, allora sarà impossibile dare un contributo al cambiamento che sia fertile e carico di futuro. Tuttavia, se ci soffermiamo sull’esperienza così umana dello sperare, notiamo due modi assai diversi di sperimentarla.
Esiste una speranza vaga, che paralizza. È quella che rimanda a un dopo indefinito ogni iniziativa, è quella che delega le soluzioni agli altri o al cielo. Si muore, sperando. In politica è nefasto rimanere con le mani in mano, sperando che venga il liberatore o che i “decisori” facciano il loro dovere. La partecipazione diretta, invece, si nutre di ben altra speranza. Sperare può voler dire anche saper vedere oltre e dentro. Scorgere le potenzialità insite nelle situazioni, cogliere un seme di gioia che resiste alla sconfitta e al peso delle macerie, porre fiducia nelle proprie risorse individuali e collettive.
Questa speranza è preziosa, rende l’attesa meditazione e l’azione gesto sapiente. La saggezza della speranza è quella che, accettando la realtà per com’è, scommette sul divenire e sul possibile. Essa vede oltre e dentro gli eventi storici, restando fedele a un’ispirazione che, in un giorno lontano, toccò la nostra anima cambiandoci per sempre. Che si possa “vivere a cuore aperto, anche se nulla è certo” e che “un bene condiviso sia la nostra destinazione” sono le due facce dell’impegno civile. Chi sa tenerle insieme può davvero seminare una speranza viva nel cuore stesso della democrazia.
Paolo Bartolini
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