Come pensiamo di poter ridurre, riusare, convertire o recuperare la plastica in modo da tenerla fuori dai fiumi, dagli oceani e dagli ecosistemi in generale?
La consapevolezza sociale circa l’impatto dell’inquinamento da plastica è in crescita ed appaiono ovunque a livello globale creative soluzioni alla “minaccia plastica”. Ogni giorno si può leggere circa l’ultimo, innovativo metodo di gestione a livello locale dei rifiuti in plastica: bottiglie in plastica PET farcite di pellicole plastiche per cibi per realizzare ecomattoni; strade pavimentate con rifiuti in plastica; plastica tessuta per farne delle borse; abiti per yoga realizzati con plastiche sottratte all’inquinamento marino; stampanti 3D per realizzare dalla plastica prodotti per utili per la comunità, bottiglie in plastica convertite in gommoni, o sandali infradito in sculture colorate; la lista cresce via via.
Soluzioni come queste per i rifiuti in plastica ricevono molta attenzione e approvazione. Tuttavia, sono queste delle soluzioni vere, o sono solo parziali aggiustature per gestire l’attacco sempre crescente dei rifiuti in plastica?
Ironicamente, paraddossalmente, il riuso creativo della plastica, alla fine della fiera, finisce solo per creare nuove strade e nuovi mercati per l’uso della plastica stessa e fornisce ulteriore sostegno alla “economia della plastica“.
Esiste una dinamica contraddittoria tra gli sforzi ben intenzionati di chi agisce per minimizzare l’impatto della plastica e il progredire dell’industria di produzione della plastica stessa. Visto che attualmente questi due settori della società operano, per la maggior parte, in sfere distinte, questa dinamica trarrebbe vantaggio da regole che consentissero a questi processi di essere più prontamente identificati.
Una possibile regola di lettura in tal senso è quella della così detta “ingiustizia adattativa“: dove l’ingiustizia sta nel fatto che quelli che si devono adattare alla realtà sociale che cambia, sia in modo volontario che forzato, non sono essi i responsabili dei cambiamenti negativi ai quali si stanno adattando. Nello specifico, è una ingiustizia adattativa aspettarsi che le comunità risolvano il problema di cosa fare del continuo flusso di plastica che entra nella comunità stessa. Vediamo perché.
Non esiste un posto dove la plastica possa andare, perché la plastica è un materiale estraneo alla materia organica, progettato per la sua durabilità. Il suo impatto si perpetua per secoli, praticamente ogni singolo pezzo di plastica realizzato nel tempo è ancora attorno a noi oggi. Globalmente, si prevede che i rifiuti in plastica crescano da 6.3 miliardi di tonnellate nel 2015 a 26 miliardi di tonnellate nel 2050. E tuttavia l’uso di questo materiale si perpetua, poiché si continua a produrre plastica in sempre più prodotti. Le microplastiche, come una sorta di fallout nucleare dell’industria plastica, ed è sistematico ritrovarle oggi in campioni di suolo, di fiume, di cibo, di oceano ovunque nel pianeta, persino nelle aree più remote. L’onere della degradazione ambientale dei prodotti in plastica viene dato da sopportare alla comunità. Mentre i produttori di plastica continuano a spingere per l’espansione del mercato e la perpetuazione degli involucri economici ed usa e getta, in una gara per espandere i loro affari. Proviamo ad immaginare come potrebbero cambiare i mercati se le compagnie dovessero rendere esse stesse conto per ogni singolo pezzo di plastica che avessero prodotto. Il carico dell’adattamento sarebbe trasferito e sarebbero le compagnie a dover sopportare il costo dei loro involucri e non la popolazione e i governi locali.
Stiamo partendo dalla giusta premessa per chiedere “cosa può essere fatto” e “chi lo dovrebbe fare”?
Indubbiamente, è bello vedere gli sforzi preoccupati di singole persone e di intere comunità in giro per il mondo che gareggiano per ripulire e riusare in modo creativo la plastica. Tuttavia, è la radice del problema dei rifiuti in plastica che necessita di essere affrontata: l’estrazione delle materia prime e la sua produzione. Iniziative locali che aggirino la valutazione profonda del processo economico che crea e accumula rifiuti in plastica può avere il solo effetto di prolungare il problema. Ogni qualvolta le persone o la comunità si fanno carico della responsabilità del problema, questo devia il carico di responsabilità dal produttore. Fondamentalmente è il flusso di estrazione delle risorse naturali necessarie per produrre plastica e la sua crescente produzione ad essere il problema; risolviamo questo e la cascata di plastica si fermerà.
Fino a quando continueremo a consentire la produzione di usa e getta e di confezioni di plastica per il cibo, il problema rimarrà. Le statistiche del World Economic Forum sul riciclo, ci dicono che globalmente solo il 2% del materiale è pienamente riciclato, l’8% è sottoriciclato, il 4% è perso nel processo di riciclaggio e tutto il resto non è selezionato e raccolto.
I produttori traggono il profitto, la società e l’ambiente subiscono l’effetto collaterale.
La plastica è la pietra angolare sulla quale contano gli attuali processi economici; la plastica è il “lubrificante della globalizzazione”.
Non esiste un “luogo lontano” dove questo materiale può andare, e la visione palese di questa ingiustizia, la visione dei rifiuti in plastica, è sparsa in giro per le strade, nei corsi d’acqua e sulle spiagge.
È tempo di rompere il modello che “privatizza i profitti e socializza i costi”.
… e nel frattempo la Plastic Tax, la tassa sugli imballaggi in plastica monouso che sarebbe dovuta entrare in vigore il 1° gennaio 2020, poi rinviata al luglio 2020 e quindi ancora al gennaio 2021 è stata rinviata per la terza volta al 1° luglio 2021.
Maria Letizia Ruello
Devi essere connesso per inviare un commento.