Torno sulla dipartita del papa emerito, perché ritengo importante sottolineare un aspetto filosofico (non teologico) sotteso al confronto di questi giorni sulla pregnanza del pensiero di Ratzinger. Nell’area antisistema e sovranista sbocciano celebrazioni del trapassato che stupiscono appena. Si riconosce, allo strenuo difensore dell’ortodossia cattolica, la capacità di tenere insieme fede e ragione contro le derive del transumanesimo e del globalismo uniformante. Nel gioco simbolico delle contrapposizioni è evidente che Papa Francesco sia l’obiettivo di una critica, strisciante od esplicita, a una religione che si apre a numerose contaminazioni. Insomma, e per farla breve: di fronte alla deterritorializzazione continua imposta dal capitale e al potere astraente dell’apparato tecnico contemporaneo, si cerca un nuovo radicamento nell’essere, nella Parola tradizionale, nel fondamento che resiste alla manipolabilità infinita che scienza moderna, economia di mercato e comunicazione massmediatica vorrebbero assegnare alla vita organica, ai corpi, alle culture. Portare un reazionario in palmo di mano (al quale dovremmo riconoscere la grandezza del gesto delle sue dimissioni, ma non certo della metodica avversione a tutte le forme di teologia e pensiero della liberazione: Leonardo Boff, Matthew Fox e altri pionieri di un cristianesimo fedele che profuma di ecosocialismo, sono stati puntualmente sminuiti dal suddetto “gigante della ragione”), è il gesto che può permettersi chi – cogliendo confusamente l’accelerazione del disastro innescato dal tecno-capitalismo – ritiene che il futuro vada ancorato a qualche centro simbolico definitivo. Qui l’illusione di alcuni si tramuta in pericolo per molti. Dal mio punto di vista, dato che condivido totalmente lo spregio per il transumanesimo e per il naufragio post-organico a cui ci consegna il neoliberalismo al tempo degli algoritmi, il problema centrale è tutto nell’idea di verità e di vita che si fanno le culture, le tradizioni, le persone. La via per approcciare questo tema immenso mi sembra possa essere rintracciata in una trasformazione necessaria della nostra comprensione del vero. Si noti, di sfuggita, che in poche righe ho accennato alla “via”, alla “verità” e alla “vita”, come fece Gesù definendo se stesso in maniera puntuale. Se continuiamo ad aggrapparci a un’idea di fondamento ontologica, a una base della vita inamovibile, sostanziale, sottratta al divenire, cadiamo nel massimo della superstizione. Se, al contrario, idolatriamo la potenza trasformatrice della tecnoscienza, in totale assenza di rispetto per i limiti e per i legami organici che connettono le creature fra loro e danno alle comunità umane la loro tenuta effettiva, precipitiamo nel baratro che il tecno-capitalismo scava ogni giorno dinnanzi a noi, facendoci danzare sull’orlo dell’abisso. Mi pare che una possibilità diversa – quella a cui dedico tutta la mia vita intellettuale, e non solo – sia finalmente alla nostra portata: considerare la vita quel transito che si dà solo nelle sue figure, complementari/conflittuali e in continua armonizzazione. Qui mi pongo consapevolmente in scia con il magistero di Carlo Sini, ovviamente “praticato” a modo mio, incluso in “discorsi” e messo al servizio di un orientamento che appartiene a me e che non attribuisco necessariamente al filosofo bolognese. Ogni cultura ha i suoi discorsi fondativi, certo, perché ogni cultura dà forma a un transito inarrestabile della vita, dunque la interpreta e la tesse in un ordito di segni e simboli che dà senso al vivere collettivo e individuale. La molteplicità delle prospettive sul mondo (che a loro volta sono espressioni di quel mondo e non qualcosa di esterno ad esso) continuamente mutano, si riadattano, si trasferiscono su nuovi supporti. “Lo spirito soffia dove vuole”, è stato detto e a ragione. Un’umanità planetaria, come un mosaico fatto di tanti tasselli colorati, può essere plurale e non uniformarsi ad alcuna visione “verticale”. Le vie sono innumerevoli e il destino delle verità di ciascuno è di cambiare incessantemente, di rifiorire e rinascere dopo ogni catastrofe di senso. Chi ritenesse di possedere l’accesso esclusivo – tanto più “logico” – al cuore della vita, inganna se stesso e non conosce l’amore, che sa lasciare andare mantenendo la fiducia (la fede) nella bontà del “processo” (Whitehead). In altre parole: non esistono figure di verità che possano negarsi al fiume eracliteo del tempo, dunque capaci di ambire a un radicamento definitivo. Piuttosto si tratta di rigenerarle, di aprirle alle condizioni sempre nuove della storia. E qui, come argomento nel mio libro di prossima uscita “Un’ecologia delle pratiche. Curare l’ignoranza dei legami con la filosofia”, la figura di verità emergente che accomuna tutte le culture del pianeta (e secondo me Bergoglio l’ha compreso profondamente) è oggi quella della crisi ecoclimatica, che sfida ciascuno di noi a ritrovare un posto nel mondo compatibile con i ritmi e i delicati equilibri degli ecosistemi e del “campo biologico” (questo concetto è stato coniato da Miguel Benasayag).
In chiusura, e tirando le somme, la vita è verità, “essere” come verbo e non sostantivo, attingibile solo e sempre nelle figure specifiche che ogni cultura “fa esistere” (Isabelle Stengers) e che dona/oppone a tutte le altre in un gioco intenso di rispecchiamento/confronto/riconoscimento. Non tutte le prospettive sono componibili con i limiti terrestri, e infatti le assurdità di un transumanesimo accelerazionista e intimamente filo-capitalista, impattano contro una materia vivente che non è manipolabile all’infinito, come vorrebbe una mente umana astratta e nutrita solo di volontà di potenza. Quindi, invece di sognare fondamenti assoluti introvabili, sarebbe il caso di entrare profondamente nel dialogo tra culture e idee che non detengono mai l’ultima parola sulla realtà e che, tuttavia, testimoniano del prezioso lavoro umano di adattamento creativo all’esistenza. C’è ancora spazio per gli dèi, per Cristo, per la scienza, per l’animismo, per un materialismo incantato e complesso, non secondo sincretismi banalmente new age, ma all’interfaccia tra soggetti che portano le loro prospettive differenti su un Intero che brilla nelle sue parti e resta inafferrabile. Questo processo, nel 2023, non può che partire dalla consapevolezza del tramonto dell’egemonia occidentale, dall’urgenza di una spiritualità ecocentrica, dalla ricchezza di conoscenze che impone a tutti di non scambiare mai la propria interpretazione della vita con una verità assoluta, quindi sciolta (ab-soluta) dagli altri e da Altro. Ecco perché, rimanendo sul terreno del cristianesimo, un Francesco vale più di cento Benedetto. Con tutto il rispetto per chi, da poco, ha terminato il suo cammino “in terra”.
Paolo Bartolini