“Sono un cittadino, non di Atene o della Grecia, ma del mondo”. Socrate
La tradizione italiana in materia di cittadinanza si colloca nell’ambito dello ius sanguinis, la trasmissione per discendenza codificata in legge nel 1912 e ribadita in modo ancora più stringente dalla legge 91 di trent’anni fa. Una concezione ancestrale, fondata su istanze difensive, chiuse e rigide.
Dopo il fallimento, negli anni scorsi, del percorso verso lo ius soli, peraltro depotenziato e temperato, promosso paradossalmente dalle stesse forze che in quel periodo approvavano le norme razziste del Decreto Sicurezza, si è approdati, con successivi, pavidi ripiegamenti, alla formulazione dello ius scholae, come definito nel testo approvato dalla Commissione affari costituzionali della Camera, prima della fine della scorsa legislatura. E oggi il tema dello ius scholae, le cui probabilità, per altro, di essere preso in carico dai vincitori delle elezioni sono nulle, campeggia con maggiore o minore enfasi, in vista del 25 settembre, in diversi programmi elettorali ( PD, M5S, Verdi/SI,+Europa, Azione/IV, mentre di ius soli parla solo Unione popolare).
Battersi per lo ius scholae, dunque, meglio di niente, si dice. Ma siamo sicuri che sia proprio così? Siamo sicuri che un (presunto) passo in avanti consista sempre in un avanzamento reale, laddove sia assente una immaginazione e una pratica di nuovi orizzonti realmente alternativi e liberati dalla coazione all’integrazione e all’assimilazione? E riusciamo a immaginare una lotta per i diritti fuori dalla melma del meno peggio in cui è da tempo siamo sprofondati? O non si corre piuttosto il rischio di imboccare ancora una volta percorsi e posture di retroguardia che non solo non mettono in discussione le coordinate ideologiche e materiali sui cui si base l’idea di cittadinanza ma che rischiano di collocarsi nel solco delle disuguaglianze, delle asimmetrie di potere e del razzismo strutturale che il suo carattere escludente e classista produce?
Lo ius scholae ripropone, di fondo, con i soliti, insopportabili artifizi retorici sull’italianità, il riconoscimento della cittadinanza come merito e non come diritto. Per la sua concessione occorre la frequenza di un ciclo di studi certificato dalla Scuola e se i cinque anni considerati includono la frequenza della scuola primaria, allora viene richiesto anche il suo superamento con esito positivo, quasi fosse una sorta di adesione culturale ad un orizzonte “nazionale”, al termine della quale non si introducono meccanismi automatici ma è necessario fare richiesta.
Nel progetto di riforma, limitata a chi nasce in Italia o con il vincolo stringente dell’ingresso entro i 12 anni, le incongruenze sono numerose: ad esempio viene esclusa una importante e ampia fascia di giovani e non è prevista la norma transitoria che consentirebbe di rendere il provvedimento retroattivo per chi abbia già maturato i requisiti.
Inoltre, anche qui, viene eretta l’odiosa barriere della residenza legale per il genitore che deve effettuare la richiesta per la/il figlia/o, tanto più assurda considerato che questa si lega a una frequenza scolastica rispetto alla quale il permesso di soggiorno dei genitori è irrilevante per un minore straniero.
Ma soprattutto è una proposta che non incide per niente sulla condizione degli adulti, vale a dire delle ampie fasce oppresse, precarie e ricattabili, la cui unica possibilità rimane quella lunghissima e ardua della naturalizzazione per reddito (oltre che quella per matrimonio), basata sul presupposto che se sei povero non puoi diventare cittadino italiano.
Si dice: ma a giovarne sarebbe comunque una platea potenziale di circa 250.000 alunni.
Non si intende certo eludere la rilevantissima dimensione materiale dell’esclusione dalla cittadinanza, che produce profonde asimmetrie di reddito e di opportunità, non consente il diritto di voto e ad essere eletti, a ricoprire cariche pubbliche, a partecipare a varie tipologie di bandi, a circolare e soggiornare liberamente nel territorio degli stati membri UE, a non dover chiedere il visto per tantissimi Paesi ecc.
Se da una parte tali aspetti devono sempre essere tenuti in debito conto per non incappare in elucubrazioni da “anime belle” occidentali dall’altra non vanno però disarticolati dalla consapevolezza che le politiche della cittadinanza non possono limitarsi all’indispensabile superamento del diritto di sangue per l’adozione dello ius soli ma vanno ricondotte all’interno di una riforma organica della disciplina che sia sganciata dai dispositivi di potere novecenteschi dell’identità nazionale, della sovranità, della patria, dell’appartenenza ad un territorio, prevedendo forme di riconoscimento effettivo e diffuso e superando ogni requisito selettivo, classista, disciplinante ,al di là dei riduzionismi dicotomici ius sanguinis/ius soli, /ius scholae/ius culturae.
L’istanza per una cittadinanza universale liberata dal carattere nazionale e dai dispositivi del regime di controllo delle migrazioni passa per la rottura dell’appartenenza agli Stati nazione e si fonda sul diritto di movimento e di residenza, che non possono essere subordinati a nessuna condizione giuridica e amministrativa.
I movimenti migratori svelano la finzione dello stato-centrismo e della sovranità moderna, mettendo in discussione il carattere proprietario della terra, e gettano le basi per forme di coesistenza non identitarie e deterritorializzate.
Alessandro Fulimeni
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