In piena crisi sistemica, e in una fase storica segnata dalla riorganizzazione del capitalismo finanziario in direzione di un surreale “capitalismo verde”, è sempre più chiaro che il lavoro ha perduto quella centralità che per più di un secolo aveva mobilitato le lotte della sinistra politica.
Come ridare attenzione ai diritti delle lavoratrici e dei lavoratori? Come uscire da quella imprenditorializzazione della vita che ha colonizzato l’immaginario contemporaneo disgregando il senso di solidarietà che univa gli sfruttati tra loro? Le lotte del presente-futuro non possono evitare di confrontarsi con una questione decisiva: l’obiettivo di una sinistra etica e popolare è quello di liberarci più possibile dal lavoro salariato, quantomeno da tutte le sue versioni insostenibili, quelle che precarizzano l’esistenza, addormentano la creatività, distruggono diritti e condizioni di vita. Sono settimane che, nell’attualità di una politica italiana sotto la soglia della decenza, sentiamo moltiplicarsi gli attacchi padronali contro la misura del reddito di cittadinanza. Altrettanto frequenti sono le lamentazioni per la manodopera giovanile che diserterebbe – questa la narrazione mainstream – i lavori che con tanto amore li aspettano. Quante persone svogliate e incapaci di apprezzare il sudore della fronte, quello che “nobilita l’uomo” e arricchisce i dividendi degli azionisti…
Una retorica più ipocrita è difficile da trovare. La sua funzione è stigmatizzare tutte/i coloro che non sono più disponibili ad accettare qualsiasi impiego e mansione, mal sopportando le vessazioni di chi non offre contratti decenti, stipendi adeguati e copertura assicurativa. Che si debba “soffrire”, come auspicava una faccia nota della politica riformista italiana, è il punto della questione: che ce ne facciamo di giovani generazioni che esigono diritti e non sono disposte a farsi spremere continuativamente? La competizione globale non sarebbe affrontabile se lavoratrici e lavoratori cominciassero a fare gli schizzinosi. Ecco allora che qualunque sostegno al reddito viene percepito come strumento del diavolo, ostacolo al lavoro (salariato, si intende) piuttosto che precondizione per vivere una vita dignitosa a fronte di iniquità sistemiche inaccettabili.
Quando leader politici come Renzi, Salvini e Meloni, insieme a Confindustria e ad altri segmenti del capitalismo italiano, dichiarano battaglia al reddito di cittadinanza (di per sé perfettibile e abbastanza lontano dalle misure che servirebbero realmente alla popolazione) allora diviene chiaro un punto, reso ancora più evidente dal trattamento riservato ai lavoratori delle multinazionali dopo lo sblocco dei licenziamenti sancito da Draghi: la lotta per un’occupazione dignitosa e sensata diventa ormai inscindibile da un ripensamento complessivo del lavoro in una prospettiva post-sviluppista. Ridurre l’orario di lavoro a parità di salario, inaugurare un reddito di base garantito che liberi i soggetti dai ricatti, riorganizzare profondamente i sindacati, fornire tutele serie ai precari, promuovere la cooperazione secondo principi non capitalistici. Tutto questo è necessario, insieme alle vertenze per difendere chi vede attaccati ogni giorno i residui diritti, ma lo è ancora di più promuovere una presa di consapevolezza che punti a liberare il tempo. Gli esseri umani hanno bisogno di sostentarsi e di svolgere attività sensate. La nostra dignità non deriva dal riconoscimento identitario dovuto a un impiego nel settore pubblico o privato, bensì dal sentirci parte di un progetto di società per cui valga la pena offrire impegno, passione ed energia. Sarebbe il caso di parlarne, se vogliamo stringere un’alleanza con le nuove generazioni che sia durevole e fecondo. Le priorità degli ultimi cinquant’anni vanno quindi riviste dalle fondamenta, rottamando il neoliberalismo e aprendo una nuova fase di emancipazione collettiva e individuale.
Paolo Bartolini
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