È raro imbattersi in un libro di cui si immagina di non condividere alcuni presupposti, ma trovarlo, poi, fondamentale, rivelatore del tempo che viviamo. Nella mia esperienza, sono queste le letture che restano, che non smettono di interrogarti, che ti strappano dal comfort delle certezze.
Con La vita lucida. Un dialogo su potere, pandemia e liberazione – di Paolo Bartolini e Lelio Demichelis (Jaca Book, 2021) – mi è capitato esattamente così. E del resto, il dialogo, tra un analista filosofo (Bartolini) e un sociologo dell’economia (Demichelis), è vero e profondo anche perché non si chiude tra i due autori; come nella classicità, invita il lettore a dialogare con se stesso e con le proprie convinzioni, per aprire sentieri faticosi, non piazze celebrative.
La lucidità, a cui il titolo ci invita per sfuggire ai vortici distruttivi del tecno-capitalismo, non può essere certo quella che ne ha, ideologicamente e antropologicamente, determinato i trionfi; non è la razionalità positivistica (a cui è, d’altra parte, funzionale la deriva complottistica). È la ragione del corpo, della sacralità della terra e delle forme variegate dell’essere. È la coscienza, non più antropocentrica, di sé nel mondo. Non a caso, quasi all’inizio del dialogo, Demichelis richiama le parole di Marcuse ne L’uomo a una dimensione, per mettere a fuoco la spinta totalitaria che si profila all’orizzonte: ricominciare come prima, peggio di prima: “entro il medium costituito dalla tecnologia, la cultura, la politica e l’economia si fondono in un sistema onnipresente che assorbe o respinge tutte le alternative”. Altro che “uscirne migliori”! Se la pandemia, ricordano gli autori, avrebbe potuto essere – nell’immagine di Arundhati Roy – il “cancello tra un mondo e un altro”, basta scorrere il PNRR per comprendere come l’ordo-capitalismo stia tentando di sbarrarlo; vengono in mente le parole che Brecht mette in bocca al capitalismo del suo tempo: “solo ora io comincio”.
Ma il dialogo non produce una sdegnata rassegnazione, né adombra palingenesi fasulle. “Una buona terapia politica (già auspicata a suo tempo da Antonio Gramsci) – scrive Bartolini, parlando del “potere delle piccole idee” e della “ricerca dell’alternativa” – dovrà aiutare gli umani ipermoderni a ricomporre la loro esperienza interna, tra emozione e pensiero, affetti e simbolizzazione; soprattutto dovrà aiutare a ricordare ciò che è nascosto nell’angolo più buio della memoria implicita dell’occidente: colonialismo e capitalismo”. Nella bella e destabilizzante postfazione, che chiude questo volume prezioso, Benasayag scrive: “Bartolini e Demichelis ci aiutano piuttosto a uscire dal buco nero dell’immediato”, quello che “appiattisce l’umano su un ‘qui e ora’ privo di spessore e di relazioni”.
Un testo davvero importante, scritto – una volta tanto – finché siamo in tempo; utile a ricominciare a tessere l’etica della responsabilità, individuale e collettiva, del “prendersi cura” del mondo; “senza abbandonare la ragione alla deriva”, come scrivono nell’introduzione, una ragione “convinta di sé ma non prepotente”.
Giuseppe Buondonno
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