Nella società dello spettacolo, ormai diventata digitale, molto si gioca a livello emotivo, sul piano del condizionamento indiretto e dell’influenza psicologica. Sembra che il pensiero rigoroso, attento ai princìpi di coerenza, alle distinzioni logiche e alla tenuta complessiva del discorso, stia lasciando sempre più spazio nella vita collettiva a pseudoragionamenti, a forme ingenue di pensiero magico, a fantasie assurde senza capo né coda. La pandemia in corso ha dimostrato quanto labile sia l’uso della ragione come esercizio democratico, offrendoci l’immagine sconfortante di un’opinione pubblica sballottata qua e là da chi tocca le corde emotive giuste (soprattutto stimolando paura, allarme e dubbi paranoici). Aggrapparsi ai numeri, in cerca di dati “oggettivi”, spesso non basta e non riesce a mettere d’accordo visioni della realtà incompatibili. La ragione, insomma, non va più di moda. Perché?
Personalmente non credo a un epocale e inatteso rigurgito irrazionalista, piuttosto mi sembra che stiano emergendo goffe e inconcludenti reazioni una ragione ridotta, da secoli, a razionalità strumentale e calcolante. La pretesa totalitaria del potere di uniformare culture, soggettività e stili di vita alla logica bifronte del denaro e della tecnica – entrambi fondati su una razionalità quantitativa, disanimata e fatta di puro calcolo – sta scatenando, in gruppi umani sempre più frammentati e diffidenti verso le agenzie di formazione classiche, l’illusione che ognuno possa crearsi una sua realtà a immagine e somiglianza. Saltano dunque la coerenza delle argomentazioni, l’accuratezza nella ricerca delle informazioni, la misura interna al ragionamento e prosperano la presunzione, una dogmaticità arrogante e l’insulto come arma di difesa. La razionalità che non si cura più dei fini umani, ma si contempla come mezzo esclusivamente al servizio dell’accumulazione economica e del funzionamento dell’Apparato, produce i suoi fantasmi inquietanti. Lo diceva meravigliosamente il pittore Francisco Goya: “il sonno della ragione genera mostri”. Questi mostri, quando non sono in televisione a pontificare, possono essere i nostri vicini o gli amici che fino a ieri chiedevano ragioni per dare il loro consenso a una teoria o per accettare delle regole necessarie alla convivenza. Adesso tutti sono diventati virologi dopo mezz’ora di vagabondaggio su internet, tutti sono uomini (e donne) di Stato, tutti sono professori pronti a sbraitare contro gli intellettuali e i “professoroni”. Rifiutando l’universale astratto della ragione tecno-capitalista molti ne riproducono, in ottavo, gli stessi limiti. Del resto, lo vediamo, sta diventando quasi impossibile capirsi e parlare con calma senza saltarsi al collo. Rabbia e incomprensioni sono all’ordine del giorno
Penso che, senza accorgercene, siamo giunti nel bel mezzo di una crisi radicale dello spazio democratico, uno spazio nel quale le differenze personali sono molteplici e arricchenti, ma devono coesistere con una dimensione comune che garantisca il dialogo anche a partire dall’effettiva conoscenza dei temi affrontati. Rispetto dell’altro, capacità di formulare pensieri complessi e di comunicarli, integrazione tra emozioni e concetti, esercizio del senso critico, corretta comprensione delle posizioni altrui: questi sono alcuni elementi imprescindibili che Dipende da Noi vuole promuovere e coltivare. Perché ragionare non vuol dire calcolare e nemmeno vincere in un dibattito. Ragionare vuol dire prenderci cura insieme del linguaggio, dei nostri strumenti di conoscenza, della possibilità di intenderci e di abitare la realtà a occhi aperti. Ritengo sia nostro compito, infine, promuovere la ragione e l’incanto insieme, senza rinunciare a nessuna delle due facce della medaglia. Mai come adesso mi è parso di vitale importanza meditare il suggerimento tripartito che proviene dal buddhismo, vera e propria “religione dell’attenzione”: fai il bene, evita il male, purifica la mente.
Paolo Bartolini
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