Come è vero che un’immagine è più potente di mille parole!
L’immagine della Presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen rimasta in piedi al cospetto di due maschi (il Presidente turco Erdogan e il Presidente del Consiglio europeo Charles Michel) che si sono accomodati su due poltrone l’uno accanto all’altro, è la rappresentazione plastica di una narrazione che sottende un ordine del discorso molto chiaro e netto da parte del padrone di casa, Erdogan, nel quale le relazioni di potere gerarchico tra i sessi vengono ricomposte e viene ri-affermato con forza chi comanda. Con quel gesto di una forza simbolica potente Erdogan ha mandato non solo un messaggio a Von der Leyen, ribadendo la struttura gerarchica delle relazioni tra i sessi, ma anche a tutte le donne, affermando la sua convinzione, già espressa pubblicamente che “le donne devono stare a casa”, tradotte poi in politiche nefaste sui loro corpi, sulla loro libertà e possibilità di autodeterminazione, sui diritti civili; un messaggio, quello di Erdogan, chiaro e netto arrivato già qualche settimana fa con la decisione della Turchia di uscire dalla Convenzione di Istanbul, lo strumento di diritto europeo più efficace nel combattere e contrastare la violenza maschile sulle donne.
Non mi soffermo su altre questioni economiche e politiche, legate ai rapporti che l’Europa intrattiene con la Turchia e per le quali ci sarebbe piaciuto che Von der Leyen o chi per lei non fosse andata proprio in quel contesto a trattare con un “dittatore con il quale occorre cooperare”, come ha affermato Draghi dopo l’accaduto, perché vorrei ragionare sulla rappresentazione della società che si sta delineando nel quadro europeo e italiano, in relazione ad un Modello Europa portato avanti anche a livello locale dalle forze della destra conservatrice, che si basa appunto sul ripristinare in chiave deterministica il ruolo della donna e della famiglia nella società.
Questa narrazione politica, che è tipica di governi della destra sovranista, siano essi regionali o nazionali (pensiamo alle giunte di Regioni come Marche, Umbria, Abruzzo, Piemonte, Veneto, ma anche Stati come Ungheria, Polonia, Turchia), che hanno dato il via non a caso ad un attacco frontale alla libertà delle donne, all’autodeterminazione rispetto alle scelte sulla propria vita, mira a riportare dentro un ordine del discorso sessista/razziata, il modello di una società fondata sulla famiglia “naturale”, tradizionale, bianca e patriarcale alla quale si riconoscere legittimità e quindi sussidi e sostegno economici. Quella stessa famiglia, a cui viene poi demandata dalle istituzioni pubbliche la funzione di riproduzione della specie bianca e “italica”, nel nostro caso, per arginare il problema della denatalità; problema che viene illegittimamente e strumentalmente collegato alla libertà delle donne di abortire, sventolando lo spettro della sostituzione etnica e riesumando di fatto quella rappresentazione svilita della soggettività e del corpo delle donne quali incubatrici della specie, Madri, Mogli e Massaie, di mussoliniana memoria, dalla quale pensavamo ormai di esserci tutte e tutti liberati; il tutto inoltre dentro una situazione globale di pandemia che da un anno ormai ha fatto esplodere una crisi economica e sociale che ha travolto in modo preponderante le donne e il lavoro femminile, già precario e sottopagato, ricacciandole in casa, con un carico di lavoro di cura raddoppiato e sottoposte spesso alle violenze domestiche, che, come sappiamo dai Centri antiviolenza, hanno avuto un’impennata nel periodo di lockdown: quindi donne senza reddito, senza lavoro o con lavoro precario e pertanto prive della possibilità di autodeterminarsi.
Ma veniamo a noi e alla nostra Regione.
Sono di questi mesi le dichiarazioni del capogruppo di Fratelli d’Italia, Carlo Ciccioli, politico di lunga data nonché emerito psichiatra, in una seduta del Consiglio Regionale a balzare all’attenzione della cronaca nazionale, quali esternazioni dal sapore piuttosto anacronistico, si direbbe, se non fosse che in un Paese fortemente permeato da tradizione e cultura familistica, fanalino di coda in Europa per quello che concerne la parità di genere e la violenza maschile sulle donne, tali affermazioni trovano facile sponda.
Le dichiarazioni a cui si fa riferimento sono relative al tema della fondatezza della famiglia formata da uomo e donna, quale ordine naturale nell’assetto della società, dove i ruoli sono distinti e complementari: il padre detta le regole, la madre accudisce, il tutto per garantire l’equilibrio psicologico dei figli. A fronte di tali esternazioni è dovuto intervenire anche l’Ordine degli Psicologi delle Marche bacchettando il consigliere e affermando altresì in una lettera pubblica che “in letteratura scientifica è ampiamente dimostrata l’importanza della qualità della relazione sia nella trasmissione delle regole che nello stile di accudimento. Rispetto ai fattori di rischio che intervengono nello sviluppo psicologico dell’individuo, occorre una visione bio-psico-sociale che consideri la sua complessità”. Inoltre, viene caldamente suggerito di “porre la massima attenzione nell’esprimere dichiarazioni che rischiano di discriminare, semplificando, condizioni familiari perfettamente funzionanti”, pur non rientrando nel modello di famiglia tradizionale.
Il problema ulteriore, però, è costituito dal fatto che le dichiarazioni del consigliere Ciccioli si sono poi concretizzate in una proposta di legge (n.20 del febbraio scorso Interventi a favore della famiglia, della genitorialità e della natalità), nella quale si propongono misure a tutela e promozione della famiglia tradizionale, quale società naturale fondata sul matrimonio, escludendo, in modo evidentemente incostituzionale, qualsiasi altra forma di “società”, intesa come comunità idonea a consentire e favorire il libero sviluppo della persona nella vita di relazione nel contesto di una valorizzazione del modello pluralistico, come recita la sentenza della Corte Costituzionale n.138 del 2010 e dimenticando di fatto anche la legge 76/2016 sulle unioni civili.
C’è un detto che afferma in modo ironico e fors’anche provocatorio che ogni volta che si invoca la famiglia “naturale” un antropologo muore! Risalgono almeno agli inizi del secolo scorso, gli studi che affermano l’infondatezza antropologica della famiglia naturale. Per affermare l’esistenza di essa e su questa basare e distribuire altrettanti ruoli di genere su presunte basi naturali, occorre davvero avere una visione non solo ignorante, nel senso che ignora, ma anche incapace di vedere oltre il punto di vista della propria cultura, che viene sussunta ancora come universalistica e misura di tutte le cose, ma anche strumentale a un ordine del discorso che, appellandosi ad una presunta naturalità delle relazioni umane, costruisce invece una struttura sociale ben precisa.
Nella vita delle comunità umane davvero poco o quasi nulla è più “naturale” ma frutto di costruzioni di norme, valori, principi, regole, convenzioni situate nel tempo e nello spazio che caratterizzano tutto ciò che chiamiamo cultura. Ed essendo i processi culturali situati sia diacronicamente che sincronicamente dobbiamo necessariamente parlare di culture, in una dimensione che assomiglia più ad un pluri-verso che ad un uni-verso. Quando si parla di famiglia naturale, perciò, sarebbe intellettualmente più corretto e onesto parlare di un certo tipo di struttura della famiglia, quella borghese che ha preso il via in un preciso momento storico della nostra cultura occidentale, funzionale ad affermare e consolidare un certo tipo di struttura sociale.
Non mi soffermerei ulteriormente su questo discorso, la cui infondatezza è davvero talmente evidente che non vale la pena confutare più a lungo, mentre invece andrei a riflettere su un concetto che sta più a monte e cioè sull’idea di natura. Colette Guillaumin, sociologa femminista poco nota in Italia, ha messo in evidenza come il concetto di natura fa riferimento a quello di “essenza” che considera l’idea che gli esseri umani siano caratterizzati da una natura prefissata che si traduce poi in comportamenti e condotte differenti: tali “essenze” prefissate e dunque immutabili nel tempo e nello spazio si basano sulle evidenze che esistono uomini e donne, bianchi e neri. Peccato però che su tali evidenze, in-scritte nei corpi degli individui, si siano costruite relazioni distinte e asimmetriche in un ordine gerarchico ben preciso e che in base ad esse si siano perpetrate le più disumane violenze, discriminazioni e disuguaglianze. Scrive la sociologa: “il corpo dell’altro e dell’altra smette di essere corpo neutro e diviene invece una costruzione sociale, materiale e simbolica nel momento in cui è reso oggetto di sfruttamento, discriminazione e oppressione sulla base del processo di “naturalizzazione”, con il quale un sistema di potere, fabbricando l’ idea di natura, maschera di fatto l’origine sociale e culturale dei rapporti asimmetrici tra gruppi di sesso e razza: “sesso e “razza” non sono dati di fatto, fuori dalla storia, ma sono categorie politiche prodotte da specifici sistemi di oppressione – il sessiamo e il razzismo.”
Ecco allora che il richiamo alla presunta naturalità della famiglia composta da un padre-maschio e una madre-femmina in realtà nasconde l’idea e la volontà di riaffermare un ordine sociale gerarchico di relazioni asimmetriche consolidando la struttura del potere e del dominio storico degli uomini sulle donne, alle quali viene assegnato il compito di realizzare, sulla base di quella “intrinseca” natura, l’essere madri riproduttrici della specie e agli uomini invece quello di donare il nome, quale segno di appartenenza culturale ad una stirpe che di padre in figlio da sempre ha plasmato e guidato l’evoluzione e il progresso dell’umanità, così come continuano anche a raccontarci i testi scolastici di qualunque disciplina, estromettendo e oscurando l’altra metà del genere umano dai destini della storia.
C’è però un elemento essenziale che continua a sfuggire alla vista di chi intesse questa visione del mondo e delle relazioni ed è proprio l’emersione nella storia costruita dagli uomini per gli uomini di quel “soggetto imprevisto” di cui parla Carla Lonzi, che ad un certo punto ha scompigliato le carte e che, smascherando il gioco di potere e decostruendo gli stereotipi e l’ordine simbolico su cui si è costruita la cultura patriarcale, ha conquistato spazi pubblici, diritti politici e civili, libertà e autodeterminazione con la forza di un pensiero radicato e radicale e una consapevolezza di sé e del mondo che non starà a guardare né tanto meno ad arretrare, perché il processo di evoluzione della coscienza sociale nella quale l’affermazione di soggettività plurali che costruiscono liberamente forme di relazioni interpersonali differenti è già ampiamente in atto.
Orietta Candelaresi
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