Credo che un tema decisivo, per uscire dalla retorica prestazionale che invade ogni angolo della vita privata e sociale, sia quello di mettere in discussione la fatale “imprenditorializzazione del sé” che il neoliberalismo ha lanciato da alcuni decenni. Non siamo “risorse umane” e non abbiamo un “capitale di vita”. Fino a quando ci penseremo tramite i concetti e le parole d’ordine degli avversari, siamo destinati alla subalternità. Allora troviamo il coraggio di abbandonare, ogni volta che sia possibile, riferimenti banali e svianti al successo, allo spirito di iniziativa, all’essere “top”, al “farcela da soli”, alla resilienza e altre amenità della neolingua tecno-capitalista. Si dirà che sono distinzioni di lana caprina. Penso invece che il modo in cui siamo abituati a viverci, a raccontarci e a dare senso al nostro essere-al-mondo sia fondamentale in politica.
L’adesione passiva o zelante ai dispositivi di controllo del sistema si spiega anche attraverso la capacità di penetrazione delle narrazioni dominanti, che conquistano l’immaginario e ci rendono conformi a un codice di funzionamento specifico. Insieme alle lotte, alle iniziative concrete di difesa dei beni comuni, alle proposte di legge, alla costruzione di un fronte democratico che promuova il sogno di una società dignitosa oltre l’economia del profitto, è dovere di qualunque movimento di trasformazione dell’esistente farsi carico della sfida che si gioca sul piano simbolico, dei valori e delle rappresentazioni di sé.
Iniziare a sentire che non siamo individui, ma soggetti complessi, fragili e forti insieme, significa iniziare l’esodo dalla retorica della competizione di tutti contro tutti, dell’individualismo, del “potere personale” funzionale all’accumulazione economica e all’impianto concettuale neoliberale. Non siamo piccole imprese impegnate a trionfare sugli avversari, non siamo numeri, non siamo capitani coraggiosi in cerca di terre di frontiera da sfruttare, non siamo esuberi: siamo persone che condividono una comunanza di destino e devono imparare ad assumerla con responsabilità. Cominciamo a parlare di noi, dei nostri simili e della natura abbandonando la pessima abitudine di mettere in circolo i termini modellati dalla cultura del business. Sarà un primo passo, non da poco, per immunizzarci dal contagio del pensiero unico.
Paolo Bartolini
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