La prima tecnica è quella che può essere detta la globalizzazione esistenziale, per cui, come dice Luciano Gallino, “è la vita intera che viene messa al lavoro, senza distinzione di tempi e di spazi”.
La seconda consiste nella radicalizzazione del controllo su lavoratrici e lavoratori. La maniera di organizzare la produzione non deriva semplicemente dalla tecnologia disponibile. Piuttosto accade che lo sviluppo tecnologico è indirizzato ad aumentare il controllo e la subordinazione di chi lavora.
La terza tecnica comporta l’immiserimento della qualità umana dell’esecuzione del lavoro, che riduce sempre più i margini non solo per l’esercizio della creatività, ma anche per un’articolazione temporale rispettosa dei ritmi vitali delle persone.
La quarta sta nell’abbassamento della soglia di tutela dai rischi di incidenti o patologie cui le persone sono esposte durante l’attività lavorativa.
La quinta è la diminuzione delle retribuzioni. La redistribuzione del reddito va nella direzione di una forte sottrazione di valore a carico di chi lavora e a vantaggio degli amministratori, dei proprietari delle maggiori quote azionarie, degli speculatori.
La sesta tecnica consiste nella progressiva perdita di diritti per chi lavora, favorita da interventi legislativi e contrattuali che incoraggiano la parcellizzazione, la precarizzazione, lo sfruttamento, l’indebolimento dei sindacati come controparte.
La settima produce la disintegrazione della soggettività sindacale e politica dei lavoratori e delle lavoratrici, cosicché per loro diventa molto arduo esprimere istanze di autodifesa ed esercitare il conflitto sociale.
L’ottava tecnica è la precarizzazione strutturale del lavoro e dunque della vita delle persone. Se da una parte il lavoro diventa tutta la vita, d’altra parte esso e quindi l’intera esistenza vengono resi precari, esposti ai capricci dell’andamento del mercato.
La nona tecnica è la delocalizzazione, tipica dei processi della globalizzazione, con la quale il lavoro si toglie da un Paese per portarlo altrove in forma di schiavitù.
La decima tecnica è l’immunizzazione ideologica rispetto a ogni critica, per cui la mutazione globale dello statuto e del destino del lavoro sembra da assumere come fosse un dato di natura. Se si considera il quadro coerente di queste tecniche ci si rende conto di come il criterio dominante qui sia riconducibile al modello della schiavitù, rinnovata e aggiornata in modo più efficace. E oltre a tutto questo, c’è la pura e semplice esclusione dalla possibilità di lavorare: il primo prodotto dell’industria neoliberista è la disoccupazione.
Un’economia e una politica alleate nel degradare il lavoro in questo modo vanno sconfitte. Il problema da affrontare subito è che, a furia di non vedere un’alternativa a questa situazione, si finisce per credere che non esista davvero. Occorre riaprire gli occhi e vedere che, per quanto la vita non si debba mai far riassorbire interamente dal lavoro, d’altra parte è anche vero che il lavoro siamo noi. Il lavoro è umanità. È un processo di umanizzazione. Tutto quello che fanno al lavoro viene fatto a ognuna e a ognuno di noi.
Lavorare significa generare risposte al bisogno in modo che esse possano portare alla luce l’umanità di ognuno. Il lavoro è creazione di nuove e più umane condizioni di vita. Esso ha il compito di fare della terra una dimora ospitale per l’umanità, senza con ciò distruggere o avvelenare il mondo vivente della natura. Il significato storico del lavoro risiede nella promessa di togliere l’esistenza dei singoli e dei popoli dalla precarietà, dall’angoscia dell’insicurezza, dalla regressione alla brutalità della lotta per la sopravvivenza di alcuni contro altri.
Il lavoro è servizio al bene comune. È quella rete di corresponsabilità, per cui ciascuno fa la sua parte al meglio, che la Costituzione evoca quando afferma che l’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro. Il lavoro è cooperazione e corresponsabilità. Infatti nell’attività lavorativa vediamo come ci sia tra noi e gli altri un necessario rapporto di mutua intesa e di solidarietà operativa, senza il quale nessuno potrebbe perseguire una risposta ai propri bisogni e neppure il fine della prosperità economica. Perciò colpire il lavoro significa lacerare il tessuto di una società, schiavizzare le persone e distruggere la democrazia.
Esiste una forza storica che possa portarci dalla situazione attuale, in cui il lavoro viene torturato o negato, sino a una nuova civiltà, dove possiamo vedere attuati i suoi veri significati umani e sociali? Questa forza è l’azione politica. Se il lavoro siamo noi e se noi siamo la nostra dignità, allora possiamo e dobbiamo dare vita al progetto politico di una nuova civiltà, la cui attuazione comporta che la democrazia sconfigga il neoliberismo senza lasciarsi catturare dall’illusione dei sovranismi.
Una sfida come questa si affronta solo costruendo in ogni Paese – in Europa e nel mondo – una coalizione etica e politica di forze sociali determinate a salvare il lavoro, la natura e la democrazia. Le priorità sono la deposizione dei poteri finanziari con leggi e accordi internazionali adeguati a questo obiettivo, la democratizzazione del credito e delle imprese, la tutela di chi lavora e la lotta alla disoccupazione, la riforma fiscale in senso progressivo, la riconversione ecologica della produzione e dei consumi. Sono obiettivi immensi, eppure sono le sole priorità realistiche per salvarci dalla rovina.
I singoli Paesi e le regioni devono fare ogni cosa che sia di loro competenza per contribuire alla creazione di queste svolte. In una prospettiva del genere, per le Marche occorre un piano economico organico, che coordini gli interventi per l’agricoltura, la manifattura, i servizi e la tutela dell’ambiente. I criteri ispiratori del nuovo piano economico regionale sono la giustizia e l’integrazione tra economia ed ecologia.
L’esecuzione del piano deve partire dal risanamento dei territori più colpiti dal dissesto economico: da tutta l’area che ha subito il terremoto alla zona del fabrianese, dalle aree interne ai punti di crisi lungo la costa. Occorre sostenere le imprese che più esprimono le specificità della tradizione delle Marche e insieme quelle più avanzate rispetto alle frontiere attuali del mercato. Tra esse vanno valorizzate le imprese di agricoltura biologica e per il risanamento del territorio. Contro la politica dei megacentri commerciali va rigenerato un sistema commerciale diffuso. La formazione, la ricerca, il coordinamento tra università e mondo produttivo, da un lato, e la politica del credito nonché l’accesso ai finanziamenti nazionali ed europei, dall’altro, saranno strumenti centrali della nuova strategia.
È necessario che la Regione diventi la guida autorevole di una politica economica fatta di progettualità partecipata, metodo della giustizia rispetto ai diritti di chi lavora, lotta alla disoccupazione e sostenibilità integrata (ecologica e sociale). Singoli, categorie professionali, imprese, sindacati, comunità locali, comunità di migranti, scuole e università sono i soggetti potenziali capaci di dare vita a questo progetto. Occorre però un soggetto di impegno civile che renda visibile la possibilità della svolta organizzando una Convenzione per le Marche dove quanti vogliono rigenerare lavoro, cura per l’ambiente e democrazia stringano alleanza, lasciandosi alle spalle i soliti ritornelli su “competitività, innovazione e modello marchigiano”. “Dipende da Noi” è un movimento nato anche per svolgere questo servizio.
Roberto Mancini
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