Federalismo e dintorni

Un federalismo pasticcione e pasticciato. Istruzioni per evitare catastrofi.

Questa pandemia ha devastato, innanzitutto, il nostro pigro e tradizionale approccio ai problemi della società. In un certo senso abbiamo continuato a percorrere strade conosciute, spesso senza neppure accorgerci che alla fine di quelle strade c’era qualche struttura ormai sorpassata ed inutile.

Tralasciando necessarie ma scarsamente utili ulteriori considerazioni, ed entrando nel merito, bisogna affrontare con occhi nuovi la questione, apparentemente vecchia, dell’organizzazione del nostro Stato e, in particolare, della gestione apprezzabile dell’abbozzo di federalismo previsto dalla Costituzione. Che sia una questione urgente si rileva, se non altro, dal numero di decisioni in materia della Corte Costituzionale, specialmente dopo la “famigerata” riforma del Titolo V della Seconda parte del testo costituzionale, riforma gestita ed approvata nel 2001, senza, a dire il vero, che fossero chiare le conseguenze possibili e quelle probabili. Ogni volta che si pone mano a modifiche della Costituzione, infatti, ci si avventura nel buio, sperando che le luci della strada abbandonata siano sufficienti a far luce anche su quella nuova (ecco spiegati i motivi principali, secondo me, delle ricorrenti bocciature delle proposte di modifica sottoposte a referendum. Ma questa è un’altra storia, che potremo raccontare quando ci sarà più calma).

Per tornare all’inizio di questa riflessione, credo sia indiscutibile che, nel tentativo di fronteggiare alla meno peggio questa pandemia, in senso tecnico, lo spettacolo del “federalismo in azione”, diciamo così, sia stato desolante e totalmente inefficace. Tutti, infatti, i vecchi e nuovi “federalisti” si sono accontentati di leggere la lettera del “nuovo” articolo 117 della Costituzione, riformato nel 2001, e hanno deciso che la “tutela della salute” attribuito da quest’articolo, al comma 3, alla “legislazione concorrente” tra Stato e Regioni fosse valido anche per affrontare e risolvere i problemi nascenti da questa nuova e terribile esperienza. Così si sono succedute le sedute della Conferenza Stato-Regioni, più o meno formalizzate, e si sono cercati i rimedi alle velleità di alcune Regioni, o meglio dei loro Presidenti (non governatori, visto che in Italia l’unico Governatore legittimo è quello della Banca d’Italia, e noi viviamo in Italia), di escogitare modifiche alle decisioni in materia del Governo centrale. Anche il Governo si è adeguato a questa lettura della Costituzione e si è incamminato sulla strada desolante di una specie di “contrattazione permanente”, con le Regioni. Quando, quindi, alcuni presidenti hanno adottato soluzioni troppo diverse da quelle governative, il Governo, indossata la “maschera feroce”, correva ai ripari, ricorrendo al giudice, amministrativo, perché in quella visione, le decisioni presidenziali sono atti amministrativi, contro i quali, quindi, si ricorre al giudice amministrativo (TAR, Consiglio di Stato). Perciò il governo ha impugnato davanti al Tar, con esito negativo, e in appello ricorrendo al Consiglio di Stato, che ha accolto il suo ricorso, la delibera di chiusura delle scuole adottata dal Presidente della Regione Marche prima che se ne dimostrasse la necessità. Questa strada ha mostrato presto tutte le criticità facilmente prevedibili. Innanzitutto i giudizi venivano decisi sulla base della situazione contingente, che poteva cambiare (e infatti, una seconda delibera, con lo stesso oggetto, del Presidente della Giunta regionale delle Marche, emanata poco tempo dopo, quando però l’epidemia si stava espandendo, non è stata nemmeno impugnata). Il secondo inconveniente, se si entra nel mondo dei giudici, è la possibile diversità di giudizio, se i giudici sono più di uno (fenomeno inspiegabile per i non addetti ai lavori, ma spiegarlo adesso sarebbe troppo complicato ed inutile, così questo dato lo assumiamo e basta, per ora). In Italia sul territorio di alcune regioni giudicano più tribunali e non un giudice solo, e la Regione Puglia è una di queste; così di fronte ad una delibera del Presidente della Regione, sempre in materia di chiusure scolastiche, il Tar di Bari dando ragione al Governo, ha annullato, mentre il Tar di Lecce ha respinto l’impugnativa governativa. Così gli alunni della Provincia di Lecce potevano andare a scuola, mentre quelli della provincia di Bari no.

La situazione si è sbrogliata, almeno in sede teorica, quando il Presidente della Valle d’Aosta, fidando sulle maggiori garanzie in Costituzione per le Regioni a statuto speciale, ha promulgato una legge regionale che, in parole povere, sostituiva le misure limitative assunte dal governo nazionale con altre, meno stringenti. Finalmente il Governo ha imboccato la via maestra di un ricorso alla Corte Costituzionale, sostenendo l’illegittimità della legge valdostana e chiedendo intanto la sua sospensiva urgente. L’intervento della Corte, di pieno accoglimento sia della richiesta principale sia dell’istanza di sospensiva, è stato di assoluta chiarezza. Premesso che l’epidemia in discussione doveva qualificarsi come pandemia, cioè diffusa a tutta la Terra, secondo le formale decisione dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (esplicita, ma purtroppo tardiva, e questo è altro problema), la Corte ha ritenuto che quindi si discuteva di problemi relativi alla incolumità pubblica, di competenza esclusiva dello Stato, nella quale il Governo può sostituirsi alle Regioni, per eliminare il “pericolo grave per l’incolumità…pubblica”, secondo l’articolo 120, comma 2, lettera q, della Costituzione. Ma la Corte è andata parecchio oltre decidendo che “Tale conclusione (cioè la competenza esclusive statale) può dunque concernere non soltanto le misure di quarantena e le ulteriori restrizioni imposte alle attività quotidiane, in quanto potenzialmente fonti di diffusione del contagio, ma anche l’approccio terapeutico; i criteri e le modalità di rilevamento del contagio tra la popolazione; le modalità di raccolta e di elaborazione dei dati; l’approvvigionamento di farmaci e vaccini, nonché i piani per la somministrazione di questi ultimi, e così via. In particolare i piani di vaccinazione, eventualmente affidati a presidi regionali, devono svolgersi secondo i criteri nazionali che la normativa statale abbia fissato per contrastare la pandemia in corso (.Testuale nella sentenza n. 37 del 2021, depositata il 12 marzo).

Tutto risolto, quindi, visto che la Corte Costituzionale, custode e garante della Costituzione, ha deciso così nettamente, anche relativamente ai piani vaccinali?

Magari!

Quando ho letto che con i piani vaccinali applicati dalle Regioni risultavano vaccinati parecchi più ventenni che ultra ottantenni non ho avuto dubbi: i piani erano sbagliati, stabilendo scale di priorità basate sulle categorie e non su altri più significativi elementi, come l’età e la fragilità fisica. Alti lai governativi, e altre riunioni con le Regioni, per ottenere un risultato al quale si poteva arrivare molto più facilmente e rapidamente, indicando con chiarezza le scale di priorità dei soggetti da vaccinare, scale alle quali le Regioni dovevano accondiscendere, volenti o nolenti. Ma l’ultimo governo precrisi, il Conte 2, ha nicchiato a lungo, mentre quello successivo, presieduto da Draghi, vi ha provveduto quasi subito. Le ragioni di questa diversità di comportamenti non sono difficili da comprendere, se solo si tiene presente che più si restringono le attività consentite, e più diminuisce il consenso. Questa banale motivazione ha più volte, nella storia di questa catastrofe straordinaria, ispirato la condotta dei Presidenti delle Regioni, spingendoli in massa, in qualunque colore fosse “sistemata” la Regione amministrata, a fare fronte unico contro le decisioni in materia del governo centrale, così che ai Presidenti toccava il ruolo del “buono” e al Governo quello del “cattivo”. Questa situazione non ha frenato il governo nel fronteggiare la prima ondata di contagi (Conte ci ha “messo la faccia”, secondo l’orribile espressione sempre più di moda), per l’atmosfera (quasi) patriottica di quella terribile primavera del 2020, con canti bandiere e slogan dalle finestre; al calo dei consensi ci si pensava poco, dato anche il ridicolo capovolgimento delle strategie politiche e comunicative dei leader dell’opposizione, di giorno in giorno favorevoli o sfavorevoli alle mascherine, al distanziamento, a tutti quei suggerimenti che il persistere del pericolo sanitario avrebbe reso una specie di “mantra”. Quindi le Regioni, in persona dei Presidenti, insistevano nel chiedere di allentare i divieti, tanto, si poteva tranquillamente e maliziosamente sospettare che stessero “recitando un ruolo”, e il governo si arroccava dietro un muro di no, obiettivamente sorretti dai numeri terribili del procedere della pandemia, e dalle scene davvero strazianti della fila di camion militari che trasportavano altrove le bare dei morti, non più gestibili nel cimitero di Bergamo, ed anche dell’impressione forte della figura bianca di papa Francesco che attraversava con passo zoppicante, sotto una pioggerella cupa, una piazza San Pietro deserta per leggere le sue riflessioni in linea con l’atmosfera nazionale, anche se “alleggerite” dal messaggio di speranza comunque proveniente dalla fede.

Non ha mostrato la stessa determinazione il governo verso la fine della sua esistenza, quando il capitale di consenso accumulato l’anno prima stava esaurendosi e il clima avvelenato dentro la maggioranza, foriero di una crisi incredibile, inspiegabile e devastante, ne aveva bloccato il cammino. Sembrava quasi che la necessità indubbia di aumentare il proprio appeal inducesse il Presidente a rifuggire da decisioni poco gradite elettoralmente. Insomma, e per chiudere sul punto, si era assistito ad una partita di tressette a perdere (rovescino) in due mani, nelle quali i giocatori tentavano di sfuggire alle responsabilità poco redditizie.

Ma, a governo mutato, con maggioranza amplissima e “contraddittoria” al suo interno, si continua a disegnare una linea in teoria nettamente restrittiva, ma in realtà frutto di dure contrattazioni intragovernative, mentre il panorama regionale non è migliorato affatto. Tanto che, ad un seminario-tavola rotonda organizzata da Agenas, l’agenzia sanitaria regionale con respiro nazionale, il primo relatore, il costituzionalista Renato Balduzzi, già ministro della salute nel governo Monti, chiudeva con una richiesta-suggerimento-invocazione “Non affidate più la sanità alle Regioni”, assolutamente condivisibile, dato il desolante panorama offerto dal mondo regionale tutto nell’affrontare un’ imprevista(però forse non imprevedibile) emergenza, che ha messo a nudo le gravi carenze organizzative presenti e passate, causa principale dell’altissimo numero di morti, che mette l’Italia al primo posto in Europa, assai più delle pur innegabili “imprudenze di massa” dell’estate scorsa.

Non basta, però, la condivisione della conclusione di Balduzzi, stranamente convinto che la riforma del Titolo V della parte Seconda della Costituzione non abbia causato grandi cambiamenti, mentre basta leggere il testo degli articoli modificati prima e dopo la riforma per rendersi conto, immediatamente, che la riforma ha arrecati notevoli cambiamenti, in grandissima parte peggiorativi della precedente situazione (un amico Presidente della Corte Costituzionale mi comunicò che, dopo la riforma, il 50% circa del lavoro della Corte era dedicato a dirimere le controversie tra Stato e Regioni).

Bisogna, a questo punto, dopo più di centomila morti per il Covid-19, ripensare totalmente la questione della forma di Stato che vogliamo. L’alternativa è secca: vogliamo più federalismo o meno federalismo? E quale federalismo? E crediamo sia utile procedere sulla strada di un aumento dell’autonomia regionale, indicata dall’articolo 116 della Costituzione, dove si prevede la possibilità di concedere “Ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia concernenti “…e giù un elenco di materie da trasferire dallo Stato alle Regioni ?

A me pare che la risposta alle domande indicate debba essere negativa, senza esitazioni.

Negativa se vogliamo rispettare l’articolo 5 della Costituzione, posto nella sezione intitolata ai “Principi Fondamentali” Questo articolo ha il seguente testo: “La Repubblica UNA E INDIVISIBILE, riconosce e promuove le autonomie locali; attua nei servizi che dipendono dallo Stato il più ampio decentramento amministrativo; adegua i principi e i metodi della sua legislazione alle esigenze dell’autonomia e del decentramento”. In questa sede non si può neppure provare ad esaminare la serie di problemi che pone questo articolo, soprattutto per i rapporti con il famoso Titolo V, con la sua previsione di un sistema di autonomie di crescenti dimensioni, specie dopo la riforma del 2001 (della quale ahimè, ammetto di essere colpevolmente uno dei coautori, con scarsa convinzione all’epoca e senza alcuna convinzione attualmente). Senza, quindi, approfondire i problemi nascenti dalla coesistenza della indivisibilità della Repubblica e di un articolato sistema delle autonomie, l’elenco delle materia trasferibili dallo Stato alle Regioni, in aggiunta a quelle già attribuite dall’articolo 117 della Costituzione, fa nascere forti apprensioni, di fronte al rischio di una disastrosa ripetizione della pessima prova fornita nel contrasto al Covid ( si pensi soltanto alla “regionalizzazione” sia della materia scolastica, già prevista da alcune leggi regionali, sia della “tutela dell’ambiente, dell’ecosistema dei beni culturali”, per opporsi strenuamente al rischio di una Italia futura ridotta ad un insieme mal riuscito di lingue-dialetti diversi, e di trasformazione del nostro immenso patrimonio artistico in senso economicista. Una approfondita riflessione sul tema nel commento all’articolo 5 in uno dei libretti pubblicati da Carocci e dedicati ai primi 12 articoli della Costituzione, quelli, appunto, dei Principi Fondamentali).

Se dovessimo indicare una linea politica futura sul nostro tema, indubbiamente si dovrebbe giungere ad una ri-modifica del Titolo V. Ma sarebbe strada faticosa e imprevedibile nei suoi risultati.

Senza rinunciarci, perciò, si tratta di organizzarsi fin da ora perché il mondo politico accetti di non procedere oltre,  e, quando è necessario, si adegui alla sentenza della Corte Costituzionale che, in materia di sanità, sostiene senza esitazioni la prevalenza delle scelte nazionali su quelle regionali (e il principio potrebbe facilmente generalizzarsi).

Non sarà facile neppure questo cammino, ma non ci sono alternative per chi vuole continuare a vivere in una “INDIVISIBILE REPUBBLICA”, nella quale doveri e diritti siano uniformi in tutto il territorio nazionale.

Vito D’Ambrosio.

Write a comment