Questi mesi di guerra, dove le opinioni pubbliche affogano nel brodo della propaganda e dell’angoscia, ci offrono l’occasione per interrogarci sul rapporto conflittuale che lega insieme emozioni e pensiero negli umani in condizioni di emergenza. Guai però a lasciar fuori dall’equazione l’influenza dei mass media, dunque la manipolazione dell’immaginario. La partita per un mondo di pace si gioca molto anche qui.
Rispetto alla guerra scatenata da Putin in Ucraina le reazioni possono essere scisse, e spesso lo sono: da una parte la marea emotiva di indignazione per le sorti del popolo ucraino e delle sue componenti più fragili. Come negare l’orrore? Perché minimizzarlo adducendo raffinate motivazioni? Dall’altra parte troviamo il rischio di un pensiero freddo, che poggia su considerazioni geopolitiche e trascura la componente emozionale: qui emerge la tentazione di perdere di vista la sofferenza delle vittime e di cercare ragioni che, come anelli di una catena, garantiscano la tenuta ferrea delle ipotesi.
Ecco allora che Putin appare solo come l’agente reattivo di un processo preparato in partenza, che muove da anni di destabilizzazione dell’est Europa voluta dalla NATO a guida statunitense. Siamo, come anticipavo, di fronte a uno schema dissociativo, che porta elementi veri ma non può integrarli. È umano e indispensabile solidarizzare con il popolo ucraino aggredito, tanto quanto è umano provare a comprendere le ragioni storiche, economiche e geopolitiche che conducono a una guerra.
Al contempo, come negare che le emozioni vengono sollecitate a orologeria? Non fa un pelino schifo pensare che dal 2014, nel Donbass, le milizie ucraine hanno ucciso e torturato filorussi nella totale indifferenza dei nostri media e del mondo che si autodefinisce “libero”? Chi ha implorato, con veemenza, di mandare armi agli aggrediti per contrastare le azioni punitive dei battaglioni neonazisti ucraini? E non parliamo dello Yemen, della Libia e degli innumerevoli teatri di guerra nei quali lasciamo morire innocenti senza che questo ci turbi il sonno. Poi, all’improvviso, quando il Cattivo di turno è quello “giusto” (per la propaganda atlantista) si alzano alti lai e si sfoggia il corredo dei diritti universali da difendere anche militarmente.
Attenzione, il gioco è talmente spudorato – si pensi alle uscite vergognose di giornalisti in vista che usano la loro influenza per infamare quotidianamente il pacifismo senza se e senza ma, compreso quello del Papa – che non di rado le reazioni psicosociali oscillano all’estremo opposto. È facile pensare che, se il cosiddetto Occidente è così ipocrita, allora gli “altri” abbiano ragione a offendere con le armi. Putin viene derubricato a leader freddo e implacabile ma per il bene dei russi. Il bene di quali russi? Qui ovviamente la verità sta altrove: Putin rappresenta interessi nazionalistici che gravitano attorno al centro del tornaconto degli oligarchi e di altri segmenti dello stato profondo che detengono il potere. La guerra di Putin è sicuramente l’effetto di lunghi tentativi andati a male di trattare con la NATO, ma l’operazione speciale in Ucraina non è in alcun modo una guerra di liberazione.
Ecco allora che, se si tengono scisse emozioni e ragioni, cuore e riflessione, si giunge a implacabili equivoci. Oggi la posta in gioco del pacifismo che rifiuta l’invio delle armi, il coinvolgimento NATO e ovviamente il modo di affrontare le controversie internazionali di Putin, è questa: allargare la risposta emotiva e la com-passione a tutti i popoli oppressi (non solo quello ucraino, ma anche quelli danneggiati dalle mire imperialistiche USA e getta) e produrre pensiero complesso, articolando conoscenza dei processi storici e visione del futuro.
Dare fuoco alle polveri di una terza guerra mondiale migliorerebbe le sorti degli ucraini e dei popoli in genere? No. Ripensare con tutti gli attori globali – ferma restando la condanna della guerra di aggressione russa – una forma di sicurezza condivisa nel nuovo mondo multipolare, può essere utile? Certo, è anzi l’unica via.
Mettere in discussione, dalle nostre parti, l’arma di distrazione di massa del sistema (dis)informativo occidentale, è un compito politico ed educativo necessario? Senza ombra di dubbio. Perché quando l’immaginario e l’informazione sono colonizzati, non vi è alcuna possibilità di armonizzazione dei conflitti. Curare le scissioni, fare a meno delle difese di copertura, prenderci la responsabilità che è nostra in questo passaggio d’epoca turbolenta. Fare tutto questo tra emozione e pensiero, senza polarizzazioni inutili, senza giustificazionismo e cecità selettiva. Questo è un obiettivo storico, a cui dovremmo partecipare come cittadini, professionisti impegnati nella cura, artisti, intellettuali, persone in carne ed ossa che non vogliono la guerra permanente tra noi e gli altri, tra noi e la biosfera, e dentro noi stessi.
Paolo Bartolini
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