Questa situazione senza sbocco si evidenzia nella contraddizione rappresentata oggi dai partiti. Previsti dalla Costituzione come istituzioni democratiche che elaborano un progetto per la società e assicurano un’interazione costante tra i cittadini, da un lato, e le funzioni di governo e di opposizione, dall’altro, essi si sono ridotti a organizzazioni chiuse specializzate nella lotta per il potere, quasi sempre polarizzate attorno alla figura di un capo. Mantenerli così non serve a niente, sopprimerli ci porterebbe direttamente al fascismo. Come si esce da questa doppia trappola?
Secondo alcune grandi voci della cultura del Novecento – penso a Mohandas Gandhi, a Martin Buber, a Simone Weil, ad Adriano Olivetti – i veri soggetti collettivi della democrazia devono essere non i partiti, ma le comunità territoriali. Esse sono state identificate, ad esempio nell’India di Gandhi, nei villaggi, o nell’Italia immaginata da Olivetti, in città, province o quartieri (a seconda dei casi) di 150.000 persone al massimo. L’intuizione è buona e imprescindibile. Ma resta un’intuizione insufficiente, perché in tal modo sono misconosciute le legittime differenze tra orientamenti ideali, progetti di società e appartenenze a categorie sociali, etniche, di genere e di generazione. La “comunità” non è omogenea e unanime. Oltre tutto, se l’unico dato aggregante è il territorio, ogni comunità locale tenderà alla lotta contro le altre (come si vede oggi nel regionalismo secessionista) e torneremmo così al punto di partenza: la logica di potere non passa solo per i partiti, passa per gli individui e per le comunità chiuse in se stesse. Il disastroso progetto della “autonomia differenziata”, che tanto piace alle forze politiche dalla Lega al Partito Democratico, è l’espressione attuale più tipica di questa logica. Il risultato sarebbe non quello di sostituire all’asfissia dei partiti la vitalità democratica delle comunità, ma di assommare l’autoreferenzialità degli uni all’autoreferenzialità delle altre.
L’unica via d’uscita sta nel rigenerare l’intero sistema della partecipazione politica: gruppi, associazioni, reti, movimenti, sindacati. E partiti. Ma partiti che siano trasformati, resi internamente democratici anche con vincoli di legge, partiti capaci di incarnare la loro natura costituzionale di organismi aperti, dialogici, ricchi di progettualità, pronti a cooperare con tutti i soggetti della democrazia. La via verso questa meta è molto lunga. Così com’è lunga la via per far sì che le “comunità” locali diventino vere comunità etiche e civili territorio per territorio.
Una democrazia decente potrà emergere solo grazie a questi cinque fattori: una scuola davvero educativa, che nutra la coscienza delle nuove generazioni; un sistema economico che riconosca il diritto di ciascuno alla sussistenza e al lavoro vero; una partecipazione diffusa assicurata dalle molteplici forme di aggregazione dei cittadini; la presenza di partiti divenuti realmente democratici; la presenza di comunità territoriali unite dalla consapevolezza etica e civile.
Basta rendersi conto della complessità di un simile processo di maturazione collettiva per capire che la democrazia digitale non esiste. Chi ha immaginato che il futuro della democrazia stessa fosse a distanza, mediante una smart participation, per cui il computer avrebbe sostituito il Parlamento, ha detto una solenne stupidaggine. In realtà bisogna lavorare duramente, con fiducia, pazienza e tenacia quotidiana, per far maturare quei cinque fattori.
In questa prospettiva il profilo di un movimento regionale di impegno civile si caratterizza come un organismo di convergenza tra la fisionomia di un partito rinnovato e quella di una comunità territoriale eticamente orientata. È un laboratorio, un esperimento di trasformazione in senso democratico delle soggettività politiche.
Immaginate che in ogni regione d’Italia agiscano movimenti d’impegno civile analoghi a “Dipende da Noi”, movimenti qualificati non tanto dalla loro dislocazione regionale, quanto dall’adesione alla visione tipica della Costituzione della Repubblica, ai valori della sinistra etica, a un progetto di società nazionale e internazionale ispirato alle tradizioni del pensiero ecologico, della nonviolenza, del femminismo, del socialismo e dell’interculturalità. In tal caso avremmo la presenza di un soggetto collettivo inedito, capace di dare seguito a una politica civile (cioè resa viva dai cittadini che si organizzano e si coinvolgono per il bene comune) che possa prevalere sull’attuale politica mercenaria (nel duplice senso che viene fatta come mestiere redditizio e che obbedisce agli interessi economici egemonici). È una prospettiva che guarda lontano, impegnativa e coraggiosa. Un’utopia. Ma dipende da noi se la parola “utopia” indica l’impossibile, o indica ciò che diventa possibile grazie alla nostra determinazione. La prima è l’utopia astratta, la seconda è l’utopia concreta.
Ora siamo a un bivio. Il movimento “Dipende da Noi” è nato nel dicembre 2019, aveva iniziato in pochi mesi a rendersi presente nelle Marche e subito è arrivata la mazzata dell’epidemia. Per noi è stato un colpo micidiale. Già la stampa ci ha oscurato fin dall’inizio e continua a farlo. Persino le cronache politiche dalle Marche del quotidiano “il manifesto” ci ignorano. Inoltre, a causa di questi mesi di confinamento in casa, molti che avevano simpatizzato con noi potrebbero essere tentati dalla fuga nella vita privata. Anche tra i militanti dei partiti a sinistra del PD c’è sempre qualcuno che sente il richiamo della foresta e non vede l’ora di sostenere la coalizione di centrosinistra con Mangialardi candidato presidente e magari Sauro Longhi come futuro assessore a qualcosa. Per altri ancora, invece, noi non siamo abbastanza a sinistra, per cui ci guardano dall’alto in basso.
Se parteciperemo alle elezioni di settembre in modo stanco e convenzionale, posso dire già oggi – 31 maggio 2020 – che prenderemo una percentuale di voti inferiore al 2 %. Dopo di che, quelli che avevano creduto a questo esperimento inevitabilmente si disperderanno. Tanto varrebbe non presentarsi ora, impegnandosi invece a costruire una presenza più radicata e più forte in vista delle elezioni regionali successive.
Se invece ognuno e ognuna di noi prende fino in fondo coscienza di quale sia la posta in gioco non tanto nel passaggio elettorale in sé, ma nel dare vita concreta, forte, riconoscibile, incisiva al nostro movimento, allora potremo costituire già in quest’anno travagliato una buona notizia per le Marche e per il nostro Paese.
Dobbiamo tornare a riunirci, nelle forme via via possibili, attivandoci con continuità e costituendo gruppi locali di “Dipende da Noi” in ogni città o paese della regione. Dobbiamo coinvolgere altre persone, interagendo con mondi culturali, sociali, economici che ancora neppure ci conoscono. Dobbiamo contribuire insieme al progetto che desideriamo per le Marche: è la nostra memoria collettiva, memoria dei problemi sorti nel passato e in atto oggi, memoria del futuro di risposte che vogliamo costruire. Se faremo tutto questo, allora sarà il segno che la politica, da fattore di disgusto e di sconforto, può diventare fattore di speranza e di liberazione. Questa svolta è urgente. Da qualche parte bisogna pur avere il coraggio di cominciare.
Roberto Mancini
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