La pandemia da Covid-19 è un “oggetto” di conoscenza complesso, impossibile da intendere nella sua rilevanza epocale se lo isoliamo dal contesto in cui è emerso. Le risposte istituzionali al virus, inutile negarlo, sono state più o meno opportune ed efficaci. Non sono mancati errori e colpevoli cedimenti, soprattutto nei paesi dove leadership autoritarie hanno sacrificato consapevolmente vite umane per non compromettere la routine dell’economia di mercato. In taluni casi abbiamo assistito a vere e proprie modalità criminali di (non)gestione della pandemia: ad esempio in Brasile, ma parzialmente anche negli USA e nel Regno Unito.
È comprensibile, inoltre, che le misure contenitive adottate da taluni governi generino preoccupazione nella popolazione, soprattutto in presenza di una comunicazione mediatica altamente confusiva (si è parlato giustamente di infodemia). La questione biopolitica connessa a un uso continuativo dello stato di emergenza non va quindi trascurata, così come è bene che il dissenso su determinate misure prescritte dalle autorità sanitarie trovi uno spazio democratico per manifestarsi, purché in forma argomentata e civile. Del resto è palese il fatto che la politica ha rinunciato al suo ruolo e che i nostri discutibili ceti dirigenti preferiscono scaricare tutta la responsabilità sui singoli cittadini, invece di fare qualcosa per mettere in condizione le persone di affrontare in sicurezza i mesi che ci aspettano. Si continua, dove si detengono le leve del comando, a non porre in discussione il modello neoliberista delle privatizzazioni, mettendo toppe dove servirebbero iniziative serie e strutturali di potenziamento dei servizi pubblici: in particolare sanità, trasporti e scuola.
Nonostante tutto questo, dobbiamo dirlo con forza, ciò che preoccupa – a proposito di un virus ad alta velocità di diffusione, sprigionato all’interno di società i cui servizi sanitari pubblici sono poco resilienti perché smantellati negli anni da politiche miopi e irresponsabili – è la scarsa capacità, in un mondo tristemente individualista, di cogliere il senso di concetti fondamentali come “principio di precauzione” e “cura reciproca”. Lungi dall’essere precipitati nella ragnatela tessuta da una tentacolare dittatura sanitaria, la crescita dei contagi e la ripresa di preoccupazioni fondate per la salute collettiva ci ricordano che le nostre vite sono intrecciate, profondamente interdipendenti. L’uso della mascherina e il rispetto delle norme igieniche, insieme al doloroso e necessario distanziamento sociale, non sono atti di obbedienza cieca. Sono comportamenti che puntano a preservare le condizioni di vita dei soggetti più fragili, diminuendo l’affollamento dei reparti ospedalieri e delle terapie intensive (la cui capienza potrebbe essere colmata nel giro di un mese). Dipende da Noi, in prospettiva di una società della cura da costruire e coltivare insieme, raccomanda a tutte e tutti di affrontare questo periodo delicato secondo uno spirito di solidarietà attento agli effetti delle nostre azioni. Siamo, in altre parole, in una fase storica che ci impone di coltivare una consapevole ecologia dei rapporti umani. Nel frattempo riteniamo che una critica matura, oggi più che mai necessaria, non debba perdersi in assurde fantasie cospirazioniste che negano la gravità della situazione, ma debba concentrarsi sulla mancata volontà dei governanti di mettere al centro del loro operato la prevenzione, la giustizia sociale e ambientale, la salute di tutti. Non è accettabile, insomma, che le istituzioni intervengano tardi e in maniera inefficace, senza tener conto delle concause sistemiche che ci hanno condotto fin qui e che minacciano nuovi eventi pandemici nei prossimi anni.
La disattenzione è all’origine di ogni male sociale, come dimostra l’essenza del sistema di separazione che domina ormai gran parte del pianeta, un sistema che metodicamente attenta alla qualità di vita delle persone, trascura il valore collettivo dei beni comuni, danneggia ciò che di più prezioso abbiamo: i legami che ci tengono in vita. Dobbiamo imparare a fare attenzione, ad avere premura e a costruire una politica che sappia ascoltare attivamente, vedere in profondità e trasformare radicalmente, instaurando un circolo virtuoso che veda impegnati i nostri rappresentanti, le organizzazioni pubbliche, gli agenti economici e noi stessi in un cambiamento centrato sulla cura e sulla responsabilità comune. Un vero cambio di rotta che può imprimere solo chi ha compreso – in discontinuità con un luogo comune falsamente consolatorio – che non siamo affatto tutti nella stessa barca, bensì nello stesso mare in tempesta. Non ci si salva da soli, ma solo insieme.
Paolo Bartolini
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