La dura seconda ondata dell’epidemia da Sars-Cov-2 che imperversa in buona parte del mondo porta a ripetere, e forse persino ad acuire, alcuni dei peggiori pattern già visti nella prima fase. La politica e i media sembrano ancora spingere verso una polarizzazione delle posizioni, dividendo arbitrariamente i «rigoristi antipandemici», focalizzati sui comportamenti individuali, dai «negazionisti» o minimizzatori, per i quali il Coronavirus è un’influenza e la vita deve andare avanti come sempre. In questo clima manicheo ogni possibile ragionamento più articolato, quindi diverso dall’invocazione dei militari nelle strade e dall’assoluta indifferenza verso le decine di migliaia di morti, non ha né diritto di tribuna nella comunicazione pubblica né, tantomeno, nella proposta politica.
L’idea pare quella di definire schieramenti in cui i fattori emozionali prendano il sopravvento su qualunque valutazione strategica e di merito. Nelle fila dei rigoristi prevale la paura per un morbo che, nelle aree in cui dilaga, prima neutralizza ogni forma di assistenza sanitaria e poi miete un numero impressionante di vittime. Viceversa, tra molti negazionisti ci sono persone che già oggi vengono massacrate, sostanzialmente senza alcun sostegno dello Stato, dalle norme di contenimento della pandemia: ristoratori, baristi, commercianti, operatori turistici, della cultura e dello spettacolo, insieme a tante altre categorie di lavoratori autonomi e piccolissimi imprenditori che vedono implodere le loro attività. Il dibattito, per così dire, è tra chi teme le possibili e nefaste conseguenze della pandemia sulla propria vita e chi già ne è travolto; e l’indisponibilità della politica di farsi carico di entrambe le istanze non fa che acuire l’incomprensione, a punto di definirsi reciprocamente «fascisti» e «imbecilli», due categorie sulla base delle quali è assai difficile ipotizzare un dialogo, figuriamoci una soluzione comune.
L’obiettivo di questa dicotomia artefatta mi pare, invece, piuttosto chiaro: evitare in ogni modo che politica e sistemi economici e produttivi siano costretti ad affrontare l’unica evidenza disponibile, e cioè che le norme di contenimento della pandemia finora attuate sono incompatibili con la sopravvivenza materiale di larghe fasce della popolazione, proprio mentre hanno ulteriormente arricchito ampi settori del capitalismo più predatorio, a partire dai colossi monopolisti del web come Amazon, Google, Facebook (cfr. I colossi del web più ricchi, il Messaggero del 14 Ottobre 2020). E tutto, ovviamente, senza neppure riuscire a garantire una gestione almeno sufficiente dell’emergenza sanitaria, non contribuendo quindi a smorzare l’atavica e potentissima paura del contagio.
La situazione, invece, impone una profonda rivoluzione delle scelte politiche e sociali finora messe in campo, non solo nel campo strettamente sanitario ma anche, più in generale, rispetto alle modalità dei lavoro, ai tempi di vita, alle retribuzioni, al welfare state. Occorre, ed è urgente che ci sia, una politica che si faccia carico di tutto questo, rivedendo radicalmente le scelte di ambito monetario (che oggi appaiono più vessatorie che mai, in un surreale dibattito MES sì/no che riguarda solo i paesi a sovranità limitata come quelli UE e nessuna delle grandi potenze mondiali) per favorire l’immissione di capitale pubblico nell’economia, sotto forma di welfare per le categorie più penalizzate e di investimenti pubblici in chiave sanitaria, di risanamento ambientale, di trasformazione della produzione in chiave ecologica e sostenibile, compatibile con le emergenze ambientali che la pandemia ha messo in secondo piano ma che non sono affatto sparite né tantomeno risolte.
Per fare tutto questo, però, occorre rimettere insieme un popolo; ovvero l’esatto contrario di ciò che il governo in carica sta facendo, incoraggiando la delazione e la contrapposizione sociale, rifiutando ogni approccio comunitario alla pandemia e rovesciando il più devastante problema sociale dell’ultimo secolo in una questione individuale di mascherine, movida e abbracci tra compagni di classe. Un approccio intrinsecamente reazionario e che ha come unico fine il mantenimento dello status quo, dove i Briatore possono fare penose quarantene in megaville e farsi curare a pagamento nei centri più esclusivi, mentre i baristi di periferia sono obbligati a chiudere le loro attività e a morire senza alcuna forma di sostegno, per di più additati come i responsabili della diffusione del virus se cercano di sopravvivere facendo lavorare le loro attività.
Una disparità che la pandemia ha reso ancora più inaccettabile e che, se non affrontata in chiave progressista e nel nome dell’equità sociale, si trasformerà presto in una bomba sociale che troverà il suo sfogo soltanto nell’estrema destra.
Daniele Primavera
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