Oggi tutti discutono se e come la vita cambierà. Chi è più attento nella riflessione si concentra sulle svolte necessarie, sottolineando le esigenze di equità, di solidarietà, di armonia con la natura, di vera democrazia. Chi resta alla superficie azzarda previsioni su quello che accadrà. Anche i discorsi contro i colpevoli dell’attuale disastro sociale ed ecologico sono piuttosto diffusi. La critica radicale e lucida è indispensabile per avviare il viaggio verso una società migliore, così come è necessaria l’individuazione delle responsabilità. Spesso però la critica si muta in ipercritica assoluta e compiaciuta, che chiude lo spazio per prefigurare le vie di alternativa. È un vezzo di non pochi intellettuali. Talvolta poi l’ipercritica degenera in discorso paranoico, che dipinge un mondo dove spuntano nemici diabolici e complotti da tutte le parti. Si procede con lo schema buoni-cattivi proclamandosi detentori della verità e salvatori dell’umanità.
Lasciarsi andare su questa china, oltre che essere un atteggiamento sterile, sarebbe sprecare la lezione derivante da tutti i lutti, le sofferenze e le iniquità legati al trauma che ci ha investito. Mi pare molto più concreto e utile, invece, integrare la critica e l’individuazione delle grandi svolte di civiltà che sono urgenti con la riflessione su chi devono essere i protagonisti della trasformazione democratica ed ecologica. Infatti occorre capire chi effettivamente darà attuazione a quelle svolte. È una riflessione più onesta perché fa luce su qual è e quale sarà la parte che noi dobbiamo svolgere.
Quando si cercano protagonisti affidabili, il primo impatto è scoraggiante. I leaders mondiali e delle nazioni, a parte rarissime eccezioni, andrebbero processati per crimini contro l’umanità. Ogni tanto qualcuno si diverte a esprimere preferenze per qualcuno di loro con assurdi distinguo, dimenticando che si tratta comunque di ceffi che hanno sulla coscienza una moltitudine di vittime e di disastri. Basterebbe ricordarsi della Siria, una nazione che continua a essere stuprata, verificando quali siano le potenze coinvolte “buone” e quelle cattive. Si vedrebbe subito che di potenze “buone” non ce ne sono.
Poi si può provare a cercare presso le forze politiche, a partire da casa nostra. Al di là del giudizio su questo o quel partito – fermo restando che non sono certo tutti uguali -, si vede bene che è il circuito stesso della politica istituzionale a girare a vuoto e che lo strumento del partito in quanto tale non può più funzionare così. Chi, entrando in quel circuito, ha creduto che bastasse definirsi “movimento” per essere migliore degli altri ha fatto un disastro. Se il partito per come oggi si struttura non ci porta lontano, è altrettanto pesante la lunga crisi del sindacato.
E gli enti locali, le Regioni e i Comuni? Ci sono buoni esempi, ma di fronte allo spettacolo degli individualismi localistici, per cui ogni regione presume di trovare la sua via di uscita dalla pandemia e dallo sconvolgimento economico, cadono le braccia. Come si vede l’ottusa logica della “autonomia differenziata” (dalla Lombardia, dal Veneto, dal Piemonte sino all’Emilia Romagna e alle Marche) perpetua quella stessa mentalità del “siamo più bravi, ci salviamo per conto nostro” che è il virus più pericoloso da cui guarire. Oltre tutto, dopo che abbiamo visto i risultati del “modello Lombardia”, sarebbe doveroso cambiare completamente modo di pensare.
E allora, chi resta? Tutte le forme di soggettività che ho citato – governi, partiti, sindacati, enti locali – sono importanti, ma diventeranno attori positivi della trasformazione democratica ed ecologica solo se subentreranno, in tali istituzioni, persone che sanno vivere una grande rigenerazione etica: fare politica è servire il bene comune, non pretendere di avere sempre ragione né prendere il potere. Un mutamento culturale così profondo richiede che sia forte e costante l’azione dal basso di singoli, comunità, reti e movimenti popolari. Senza questa attivazione responsabile e creativa della politica dei cittadini e dei popoli, le istituzioni sprofonderanno nella loro patologia causando la desertificazione della società.
Ma attenzione: è vano evocare questa attivazione collettiva se ciascuno non affronta se stesso. Tutte le sapienze del mondo ricordano che questa lotta, imprescindibile e ardua, è la prima condizione per fare politica. C’è una rilevanza della qualità dei soggetti nella vita pubblica che spesso non viene considerata, mentre invece è fondamentale. Perché il tipo di azione che realizziamo dipende dal tipo di persona che siamo. Perché il male che volentieri vediamo negli altri è lo stesso che dobbiamo combattere in noi stessi. Perché il vero discernimento che dobbiamo attuare non è mai nella divisione tra buoni (ovviamente noi) e cattivi (gli altri), ma sta nell’alternativa tra bene concreto (ciò che fa fiorire la vita dell’umanità e della natura) e male concreto (ciò che mortifica, offende e distrugge). Perché senza l’umiltà e il coraggio di fare della dedizione al bene comune un proprio stile di vita personale, non ci sarà alcun cambiamento in meglio.
Le due cose veramente urgenti per dare protagonisti in carne e ossa alle svolte che sogniamo sono il miglioramento etico della nostra personale umanità, in modo da diventare attori affidabili della trasformazione, e la costruzione di movimenti politici strutturalmente e culturalmente democratici. Penso a movimenti che siano adatti a generare partecipazione lucida, restituzione dei diritti a tutti gli esclusi, riconversione ecologica, progettazione sociale, governo realmente democratico dei territori e delle nazioni. Questo è il compito dei movimenti che oggi sanno interpretare con fiducia trasformativa la vita dei popoli e della natura.
E se è vero che la globalizzazione tecnocapitalista ci stringe sotto il predominio di sette tabù (il primato del capitale sui viventi, quello dell’Occidente sugli altri popoli, quello dei nazionalismi sull’umanità, quello dell’uomo sulla donna, quello dell’adulto sulle generazioni nuove, quello della violenza sulla nonviolenza, quello dell’ignoranza sulla conoscenza), allora quanti ne sono oppressi sono gli attori preferenziali del cammino di liberazione. Se insieme sapremo riconvertire l’energia negativa data da tutta questa sofferenza in forza di rigenerazione della società, anche il circuito delle istituzioni sarà risanato, nei singoli territori e nel mondo. Perciò è opportuno che il movimento “Dipende da Noi” dalle Marche si guardi attorno, nei tempi e nei modi giusti, stringendo alleanza con movimenti analoghi in altre regioni, nella speranza di dare vita a un movimento di respiro nazionale. Anche se inizialmente non ce ne siamo resi conto fino in fondo, impareremo strada facendo quanto non sia velleitario, ma sia impegnativo, importante e fecondo riconoscere che la svolta, anzitutto, dipende da noi.
Roberto Mancini
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