La versione restaurata di Au Hasard Balthazar mostra un bianco e nero profondamente suggestivo, nei suoi contrasti, nella sua scala dei grigi, nella sua nitidezza, superiore forse a quella della pellicola originale circolata a partire dal 1966, il suo anno d’uscita. Una fotografia formalmente accattivante che tradisce le aspettative di chi guarda perché l’opera introduce immediatamente una serie di situazioni drammatiche. Il film di Robert Bresson è un capolavoro assoluto, uno dei vertici della storia del cinema mondiale e uno dei suoi film migliori sicuramente per originalità e articolazione. Il protagonista è infatti un asino, non un essere umano e questo comporta tutta una serie di conseguenze determinanti sia sul piano dei contenuti sia sul piano della messa in scena. La storia ci viene raccontata attraverso quello che succede a Balthazar e le vicende degli esseri umani diventano una specie di contorno essenziale e al tempo stesso inessenziale; il punto di vista inoltre è quello di un animale che con occhi impassibili guarda il mondo, i personaggi umani, gli altri animali.
L’estetica del fuori-campo
La messa in scena di Bresson è unica e inimitabile con quel suo continuo alludere anziché mostrare, quel suo continuo chiedere allo spettatore di completare e di immaginare quello che non è contenuto nell’inquadratura, quel suo insistere sui dettagli, sui particolari, anziché far vedere il tutto, quel suo impostare la recitazione degli attori con una meccanicità che anestetizza il vissuto emotivo. Una forma e una prospettiva ascetiche, a partire proprio dal modo in cui la storia viene disvelata, che rimandano a un altrove. Quello che vediamo nell’inquadratura e nella storia è un aspetto della realtà, ma c’è qualcosaltro che non riusciamo a cogliere, che rimane fuori-campo, che interagisce con gli elementi presenti in campo ma che il regista decide di non mostrarci. Questo qualcosaltro che si trova in un altrove a volte è facilmente intuibile e immaginabile, altre volte è di difficile decifrazione e richiede uno sforzo creativo maggiore perché non rientra nel campo del probabile, ma si apre a quello del possibile.
Il pessimismo radicale
Il pessimismo di Bresson non deprime, non rattrista, perché si capisce che sta facendo apposta, che sta provocando lo spettatore, si capisce che non è realistico ma fantastico quasi surreale per quanto è univoco. Paradossalmente si tratta di un pessimismo religioso che costruisce una visione negativa del mondo: non c’è possibilità di salvezza, il bene perde il male vince, i buoni sono sempre sottomessi ai cattivi, i buoni sono inermi e inetti di fronte alla malvagità, generosità e disponibilità alla collaborazione soccombono inesorabilmente di fronte a egoismo e individualismo. Invece per esempio in un altro film, Mon oncle d’Amerique, di un regista altrettanto cupo, almeno nella prima parte della sua carriera, il pessimismo di Alain Resnais e Henri Laborit fa più male perché vengono raccontate situazioni realistiche vicine agli esseri umani comuni, in cui ci si può facilmente riconoscere e in cui i personaggi falliscono, tentano il suicidio, sono depressi, sono profondamente insoddisfatti e fanno un enorme fatica a vivere serenamente. In Au Hasard Balthazar, invece, ci si trova di fronte ad una estremizzazione, una semplificazione provocatoria, è il taglio del regista francese, la sua prospettiva, la sua visione del mondo: è ovvio che la realtà non è esattamente così ma i suoi film ci aiutano a capirla meglio. Ecco, sì, hanno una funzione interpretativa e al tempo stesso stimolano ad andare oltre. Pur essendo evidentemente claustrofobico il mondo raccontato da Bresson ci invita a pensare ad un altrove.
Bresson e Balthazar
E Bresson dov’è, come si posiziona rispetto alla storia e al suo protagonista? Il suo punto di vista qual è? È quello di Balthazar, Bresson è Balthazar, Bresson è un osservatore esterno impassibile, Bresson non si riconosce in questa umanità. Gli occhi di Baltazhar sono gli occhi di Bresson. Gli animali rappresentano una sorta di purezza, una oggettività esterna alla condizione degli umani: Baltazhar si manifesta all’inizio del film in mezzo agli animali e in mezzo alla natura e muore ritornando in mezzo agli animali e in mezzo alla natura, seguendo un percorso ciclico naturale: nel corso delle sue vicende vive invece, purtroppo per lui, in mezzo agli esseri umani, in un percorso cristologico che lo porta a condizioni sempre peggiori fino ad incontrare la morte. Sono le circostanze fortuite a cui allude ironicamente il titolo del film (au hasard) che si rivelano invece come un percorso inesorabile e preordinato (?) verso il martirio. Da dove proviene lo sguardo di Balthazar allora? Sicuramente da un altrove che è esterno all’orizzonte umano. E’ lo sguardo di un essere non-umano che ci guarda, e questo provoca in noi esseri umani un profondo disorientamento. Gli umani sono abituati a guardare gli altri esseri viventi, a stare al centro di una prospettiva di studio, di analisi, di conoscenza, di giudizio. Gli sguardi siamo abituati a lanciarli non a riceverli, e noi siamo abituati a considerarci soggetti osservanti non oggetti osservati.
L’altrove possibile
Dov’è allora questo altrove possibile che sembra indicarci Robert Bresson attraverso Au Hasard Balthazar? È in primo luogo un altrove irrappresentabile, non è filmabile dall’occhio umano o dall’occhio della macchina da presa, non può essere mostrato e si posiziona nella dimensione del possibile; è in secondo luogo un altrove che rimanda a un mondo altro, aperto alla pluralità, rispetto a quello umano chiuso (claustrofobico) e destinato al prevalere dell’individualismo e della malvagità; è in terzo luogo un altrove esterno alla dimensione umana dove poter trovare le condizioni per un nuovo punto di vista non accentrato e non giudicante. È da questo altrove che proviene lo sguardo di Balthazar. Gli occhi e di conseguenza lo sguardo sono fondamentali per gli esseri umani. La vista è il senso prevalente sia dal punto di vista psicologico che dal punto di vista filosofico e culturale. Attraverso la vista gli umani si fanno soggetti osservanti e tutte le altre cose, viventi e non viventi, diventano oggetti osservati. Non solo, gli occhi più l’uso della mano producono un’ulteriore accentramento da parte dell’essere umano: non solo soggetto osservante ma anche capace di manipolare qualunque cosa asservirla ai propri bisogni trasformarla in strumento tecnologico. Sono i fondamenti della costruzione della superiorità dell’essere umano e della specie umana in generale su tutto ciò che esiste. Ma se la gatta del filosofo francese del ‘900 Jacques Derrida lo fissa nudo appena uscito dalla doccia producendo in lui un senso di vergogna e di pudore che lo immobilizza, se l’asino Balthazar guarda impassibile le miserie e i crimini degli esseri umani che incontra, se diventiamo oggetti osservati e siamo costretti a cedere il nostro ruolo privilegiato di soggetti osservanti allora le cose cambiano.
Gli sguardi di Bresson e Balthazar, di Derrida e della sua gatta ci interpellano, ci disorientano, ci costringono a prendere in considerazione il fatto che non siamo gli unici esseri viventi che guardano, pensano, comunicano, sentono, esistono; ci costringono a rimettere in discussione il nostro punto di vista e ad allargare la nostra prospettiva sul mondo; ci costringono a immaginare un altrove, senza sapere ancora cosa sia e dove sia. È il nessun luogo e il dappertutto: si trova fuori-campo, fuori dalla portata degli occhi umani; si trova fuori da un mondo esclusivamente e riduttivamente umano, è accogliente e non escludente; si trova dietro e oltre gli occhi di Balthazar, dietro e oltre la prospettiva di ogni essere esistente. Oltre il pensare, oltre il comunicare, oltre il sentire, il solo esistere deve essere compreso, preso in considerazione, considerato sacro. La prospettiva specista che pone la specie umana al di sopra di tutte quelle animali o anche quella antropocentrica che pone gli umani al di sopra di tutti i viventi devono essere superate. Alle tre domande del filosofo inglese dell”800 Jeremy Bentham, possono ragionare, possono parlare, possono soffrire? bisogna aggiungerne un’altra molto semplice e diretta: esistono? Se si accetta il principio concreto che tutto è un processo continuo di trasformazione, che dentro il corpo vivente di animali e piante sono presenti sostanze come l’acqua, come i metalli, come i gas e che ciò che oggi è vivo domani potrà decomporsi in morte e che ciò che oggi è morto potrà ricomporsi in vita, allora non si possono più accettare i confini e le distinzioni tra ciò che vive e ciò che non vive. Il pensiero e l’azione devono abbracciare tutti gli esseri esistenti che anche nel caso in cui non siano vita essi stessi, partecipano e cooperano nella vita.
Si comincia a scorgere l’altrove possibile a cui è necessario tendere e il compito spetta agli esseri umani: in tanti e in tante ci hanno indicato possibili percorsi, ora una strada si deve intraprendere. Se davvero gli esseri umani vogliono essere soggetti protagonisti dell’improbabile e precaria avventura della vita, devono sì porsi al centro del discorso, ma per creare una nuova dimensione, un nuovo orizzonte, un altrove che comprenda tutto ciò che esiste, perché come diceva il filosofo greco Anassagora nel V secolo a.c. “tutto è in tutto” e lo sguardo deve comprendere tutti gli elementi che esistono. Essere protagonisti allora vuol dire essere responsabili, farsi carico, prendersi cura, riconoscere il proprio ruolo e quello degli altri esseri, viventi e non viventi, e mettersi al servizio. Assumere un punto di vista e un impegno che comprendano tutto e tutti.
Fabrizio Leone
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