Siamo tutti d’accordo sul fatto che il caregiver non vada lasciato in ombra e soprattutto non vada lasciato solo. Esistono associazioni di volontariato per ogni patologia che svolgono un compito essenziale per dare voce alla fragilità, ai bisogni di tante e tanti che devono poter essere accompagnati in un percorso di cura e di inclusione. A volte queste associazioni sono sostenute precisamente da quelle persone che ogni giorno si prendono cura del proprio familiare: i caregiver. Ma a loro chi ci sta pensando?
Nelle Marche ci sono stati dei tentativi per riconoscere la figura del caregiver promuovendo una legge, ma fino a ieri tutto era rimasto allo stato di pura intenzione. Invece occorre intervenire perché si tratta di una questione che richiede uno sforzo convergente di tutte le istituzioni sanitarie e sociali, uno sforzo per giungere più facilmente alle informazioni, per essere formati, per confrontarsi, per affrontare insieme i molteplici e pesanti problemi implicati dalla condizione di chi non è autosufficiente.
“Sua moglie Ha avuto un Ictus”, “Signora, suo padre ha l’Alzheimer”, “Suo figlio ha una paralisi cerebrale infantile”, “Suo marito ha la sclerosi multipla”. È così che tutto a un tratto si deve sostenere un mutamento drastico della vita e si diventa caregiver, senza meriti, senza sconti, senza preparazione specifica. È un impegno enorme che investe immediatamente almeno due persone in ogni sfera del loro essere: emotiva, affettiva, fisica, cognitiva, relazionale. C’è una persona che da quel momento avrà bisogno di cure e un familiare che inizierà a donarle.
Per ora il servizio sanitario, socio-sanitario e sociale si è occupato del malato o comunque della persona da assistere. Esistono leggi di assistenza, di inclusione nella vita scolastica, lavorativa; sono nate molte associazioni di volontariato, reti sociali, progetti di vita indipendente, progetti relativi al “durante noi” e al “dopo di noi”.
Ma al fianco della persona che fa da caregiver chi c’è?
In questo periodo i caregiver sembrano nati dal nulla ma in tanti ne parlano. I cosiddetti dispensatori volontari di cure e di affetto erano già lì al loro posto anche prima del virus, ci sono da sempre. La pandemia ha solamente amplificato il loro grido di aiuto.
Sono in maggioranza donne, si stima circa il 90%. Spesso lasciano il proprio lavoro, la vita relazionale viene ridotta drasticamente. Ci si sente sole in un ruolo che non si conosce. La paura di non reggere per un tempo lungo è il sentimento più ricorrente. Il rischio di mollare è altissimo.
Per una società che vuole assumere lo scopo di prendersi cura delle persone nella fragilità, riconoscere e sostenere i caregiver è il primo passo da fare. Ed è urgente.
È necessario maturare la consapevolezza del fatto che il problema non può essere racchiuso tra le pareti familiari, ma va condiviso dall’intera comunità sociale.
I servizi sociali, socio-sanitari e sanitari del sistema regionale devono avere gli strumenti per fare rete attorno alla persona caregiver, così che si costruisca insieme un piano di cura per la persona assistita.
Si prospetta un percorso lungo che richiede: informazione adeguata, formazione, possibilità di confrontarsi con chi vive le stesse difficoltà, possibilità di “ore di sollievo” per rigenerarsi e prendere respiro, assegno di cura. Una democrazia che si rispetti deve dotarsi di leggi adeguate a tale necessità. Nelle Marche è stata depositata una proposta di legge sulla linea di quella dell’Emilia Romagna (legge regionale 28 marzo 2014, N. 2) grazie all’iniziativa della consigliera regionale del PD Manuela Bora in collaborazione con un gruppo di lavoro di “Dipende da Noi”.
Il testo inizia così: “Il caregiver familiare è la persona che volontariamente, in modo gratuito e responsabile, si prende cura….”. Ora sta a noi tutte e tutti il compito di approfondirla, di farla conoscere e di chiedere con determinazione che sia approvata.
Elisabetta Giorgini
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