Diritti civili, del lavoro e pensiero della differenza

Ammetto di non aver seguito nel dettaglio la questione del DDL Zan. Ci sono, su questo disegno di legge, posizioni diverse anche all’interno del movimento femminista/LGBTQ+, sebbene mi sembri che la maggioranza lo consideri un passo in avanti. Alla luce dello sfacelo culturale e politico del nostro Paese, considero positivo che si inizi a porre un freno istituzionale alla violenza verbale, allo squadrismo diffuso nei confronti di chi vive genere e sessualità in maniera non conforme al codice binario imposto dalla società patriarcale. Mi pare tuttavia che, persino nella galassia “antististema”, vi sia chi guarda con sospetto a certe lotte per i diritti civili, pontificando su identità fluide pericolosamente modellate dalle esigenze di mercato. Anche esponenti della destra in Parlamento ostentano preoccupazioni del genere, forse dimenticando il liberismo viscerale che guida le loro azioni politiche in ogni circostanza. Di personaggi come Matteo Renzi non è poi il caso di parlare.

Non vi è dubbio che la questione dell’identità di genere e degli orientamenti sessuali risenta del momento storico. Ritengo, al contempo, che in troppi confondano il travagliato ed entusiasmante percorso di emancipazione dei soggetti LGBTQ+ con una sorta di scelta consumistica della propria identità, capace di condurre alla distruzione di qualsiasi vincolo biologico e di natura, in perfetta consonanza con le tendenze dominanti del tecno-capitalismo. Capisco questo timore e non lo condivido. Lo capisco perché è indubitabile che il sistema promuova identità flessibili-fluide-multiple ecc. con capacità adattive rispetto alla de-regolazione dei ritmi del vivente che esso stesso promuove (la continua deterritorializzazione del capitale ricordata da Deleuze e Guattari). Mi pare tuttavia sbagliato e presuntuoso credere sempre di poter parlare a nome degli altr*, provando a spiegare al soggetto queer di turno quanto sia subalterno all’immaginario del neoliberalismo.

Io penso che la nostra vita sia tesa irrimediabilmente tra bios e cultura, due poli di una medesima condizione, né diversi né coincidenti. La natura ha le sue regolarità, nessuno contesta l’esistenza del sesso biologico – come potrebbe? – piuttosto si tratta sempre, nel rispetto delle biografie dei singoli, di ricordare che ciascuno di noi sviluppa delle disposizioni umane aperte. Tutti, come ricorda meravigliosamente la psicoanalista Alessandra Lemma (parlando con tatto e accortezza clinica del calvario di chi si sottopone all’intervento per cambiare sesso), ci troviamo a dover fare i conti con un “corpo ricevuto”, che è investito del desiderio dell’Altro. Nessuno può scegliere di non essere questo corpo donato/ricevuto, piuttosto è chiamato ad accompagnarlo verso la fioritura. La via dell’individuazione ci chiede di accettare questo limite, senza rinunciare al libero sentire, alla possibilità di un divenire.

Penso che il femminismo abbia molto ancora da insegnarci e che un pensiero della differenza possa solo essere incarnato. Non mi affascinano né il post-organico, né il transumanesimo, e credo che non vi sia affatto un collegamento tra diritti civili e degenerazioni come l’utero in affitto e altre derive mercato-centriche. Mi interessa molto di più che la discriminazione, le semplificazioni volgari, il sessismo e il femminicidio perdano quell’aura culturale di “normalità”. Sono comportamenti ignoranti e spesso criminali, che spero vengano eradicati con intelligenza e crescita di civiltà. Contemporaneamente mi interessa che tutte le persone coinvolte nelle battaglie per i diritti civili sappiano tenere insieme questo versante della lotta con quello economico e dei diritti del lavoro. Basta sinistre alla Zapatero: tutti diritti civili e poi continuità pressoché totale con le ricette neoliberali nel mondo del lavoro. Va detto, inoltre, che la recente ingerenza della Chiesa Cattolica – secondo me nata senza l’avallo del Papa – non rappresenta in alcun modo una legittima difesa della libertà di opinione. Si impari, piuttosto, a dire quello che si pensa abbandonando la pretesa di etichettare gli altri dando patenti di normalità, usando linguaggi squalificanti che possono indurre persino atti violenti.

E attenzione a un ultimo rischio di tipo ideologico/politico: non facciamoci prendere in giro dal pink-washing e da quella parte di ultraliberisti che, con una mano, difendono i diritti civili e, con l’altra, stringono attorno al collo di lavoratrici e lavoratori il cappio del precariato, dei licenziamenti di massa, della compressione dei pochi diritti rimasti. Se è vero, come è vero, che la storia dell’Occidente moderno ha creato ex novo una divisione concettuale tra Uomo e Donna parallelo a quello tra Società e Natura, che fa sì che la dimensione maschile venga intesa come saccheggio e controllo delle capacità generative della Natura/Femmina, allora si colga l’occasione che il presente ci sta offrendo: saldare in un’unica lotta di trasformazione-emancipazione l’anticapitalismo, l’ecologismo e il femminismo. Per fortuna in tant* l’hanno capito o lo stanno capendo. Di certo non lo comprendono le forze politiche che continuano a separare le questioni di genere dalla riproduzione complessiva del sistema, proponendoci un mondo governato dagli interessi di pochi e dalle leggi impersonali del mercato.

Paolo Bartolini

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