Cos’è il potere? Bisogna chiedercelo per creare forme di resistenza creativa e di democrazia partecipata capaci di futuro. Solo chi saprà produrre un’interfaccia sensibile e porosa tra movimenti e rappresentanza potrà tentare, nei prossimi anni, di rispondere alle urgenze di una civiltà in transizione, ferita dai cambiamenti climatici, dalla crisi ecologica e da crescenti diseguaglianze sociali. Le forze democratiche dal basso sono quelle che, nel corpo vivo della società, producono nuove pratiche e immaginari. Prive di una sponda istituzionale gli effetti sistemici del loro impegno vengono impoveriti, dimidiati. I partiti, dal canto loro, sono più vicini alle leve della decisione politica e alla sfera legislativa. Purtroppo è facile che finiscano nel circuito del potere per il potere, dell’autoreferenzialità. Ecco, allora, la miseria dei sondaggi, le sceneggiate da talk show, la spaccatura fra i politici di professione e i/le cittadini/e che vogliono risposte serie ai loro bisogni.
Il potere si annida in ogni angolo, è una tentazione costante nella vita umana. Il verbo “potere”, che dice di una capacità di azione sul mondo, si sostantivizza e diventa “il” potere: asimmetria perpetua, coercizione, talora seduzione finalizzata a manipolare e a incanalare le energie delle persone verso esiti prescritti. Il potere è frammentato in se stesso, è divisione pura, forse per questo ambisce maniacalmente all’Uno, al farsi onnipresente, diffuso e totalitario. Cerca così un’ipercompensazione. Il potere/dominio implica sempre gerarchie rigide, discriminazione, passione per il comando, disprezzo per la fragilità e per i legami gratuiti. Non tollera il dono, il potere/dominio. Non concepisce la gratuità. La sua legge è quella dei costi/benefici, della dismisura coltivata sulla pelle degli umani e degli ecosistemi. Come deve porsi, allora, un movimento giovane, radicale nel senso etimologico del termine (“che va alle radici dei problemi”), nonviolento e dedito alla trasformazione dell’esistente, rispetto al potere?
Dipende da noi riconoscere che il potere non è un obiettivo sano, né tantomeno il traguardo finale dell’azione politica. Bisogna capire, inoltre, che le logiche divisive del potere possono infiltrarsi ovunque, quindi è necessario un lavoro costante di autocoscienza per rintracciare dentro di noi le tracce del loro passaggio. Per evitare di riprodurre, nel nostro piccolo, una cultura dello scontro che nulla c’entra con il conflitto generativo. Sul piano delle relazioni esterne – quelle con i territori, con la base, con le altre forze politiche – è fondamentale incarnare nel metodo, nei modi comunicativi e nelle azioni un essere-per-la-liberazione che trascenda retoriche obsolete e controproducenti (non ci serve, ad esempio, un “odio di classe”, ma la saggezza per tramutare la rabbia in alternativa, in sentieri di sperimentazione, in conflitti intensi e contemporaneamente non distruttivi), rilanciando l’arte della com-posizione, del dialogo e della convergenza su temi condivisi. Ma non solo sui temi, poiché la differenza in politica la fa quella capacità di interezza e di consapevolezza che da sempre manca ai ceti subalterni, divisi e traumatizzati dalle strategie di precarizzazione della vita e del lavoro, dall’idiozia dello spettacolo, dalla violenza di una (dis)cultura che riduce a scarti i soggetti non produttivi e incapaci di consumare a ritmi vertiginosi.
Insomma: l’unico modo per porsi rispetto al potere/dominio è quello di non rispecchiare il suo cuore lacerato, di non lasciarsi affascinare dalle sue finte soluzioni, di non sognare un contropotere che non esiste. Perché la liberazione che desideriamo ha bisogno di concrete risposte alle esigenze popolari, da avanzare in un clima di cooperazione che si nutra – finalmente – di nuove parole e gesti privi di boria. Tra il potere e l’impotenza noi scegliamo la capacità di un’azione sapiente, integrata, cosciente della lotta e, al contempo, della necessità di una cura condivisa che vada oltre l’illusione.
Paolo Bartolini
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