Spunti di riflessione sparsi sulla Palestina

La prima volta che ho assistito ad un esproprio forzato di una casa palestinese nel quartiere di Sheikh Jarrah a Gerusalemme è stato nel 2009.

Una famiglia di coloni scortata dall’esercito di “difesa” israeliano è arrivata. La famiglia era chiaramente indecisa tra due abitazioni – chissà quali fossero i loro dubbi: il colore dei mattoni? Il tipo di tetto? – e alle finestre delle due case in lizza si vedevano i volti velati delle due padrone di casa, due donne palestinesi che vivevano lì perché quella era la casa dei loro genitori, dei loro nonni. I loro occhi non me li dimenticherò mai. In quell’attesa si giocava la loro vita e quella dei loro figli.

Poi la famigliola indicò quella a destra: avevano scelto. La donna palestinese aveva una mezz’ora di tempo per portare fuori quello che poteva perché quella casa non le apparteneva più. Voi, cosa portereste via da casa vostra se aveste mezz’ora per scegliere?

La sua vicina l’aveva scampata, quella volta (oggi anche casa sua non è più sua).

Storie come queste con tantissime varianti più o meno drammatiche sono all’ordine del giorno nei Territori palestinesi occupati. Sono così frequenti che se non fossero vero potrebbero essere dentro un’opera di Kafka. E sapete perché? Perché queste azioni sono legali per l’ordinamento israeliano.

Qualche anno dopo, nello stesso quartiere sono apparsi nuovi cartelli stradali, quelli che indicano i nomi delle vie. Il nome di quella zona non era più l’arabo Sheikh Jarrah ma l’ebraico Shimon HaTzadik. Ricordo ancora l’effetto strano che mi fece vedere quelle scritte. Poi è arrivata pure la fermata del trenino metropolitano e anche quella non menziona Sheikh Jarrah.

Ho sempre lavorato con adolescenti palestinesi e negli ultimi anni mi aveva molto colpita che qualcuno a volte utilizzava il nome della fermata del trenino e non quello del quartiere arabo originario.

Nel 2006 ero appena arrivata e ci furono le elezioni in Palestina. Vinse Hamas. Mi ricordo che chi lavorava già da un po’ nei Territori mi diceva che Hamas all’epoca era un movimento per la gente, con la gente. I palestinesi ci avevano creduto, si sono fidati e hanno scelto. Si respirava fiducia. Poi cosa è successo? Bè, su questo argomento non mi addentro troppo ma ci furono pesanti interferenze: il risultato non piacque all’establishment di Ramallah, non piacque alla UE e agli USA, non piacque a Israele. Le posizioni si irrigidirono, ci furono grandi pressioni sia interne che esterne e oggi quel che resta di Hamas danneggia, a mio avviso inequivocabilmente, la “causa palestinese”.

Aneddoti come questi rappresentano quelli che io chiamo “interstizi”, mi piacciono molto gli interstizi.

Ho imparato tante cose dalla mia esperienza nella Un-Holy Land e una delle più importanti è che il bianco e il nero non esistono se non nelle nostre semplificazioni o ideologie. Perché è negli interstizi che accadono le piccole cose importanti, è negli interstizi che vivono le persone. Negli interstizi tra i grandi eventi, quelli che non finiscono mai sotto i riflettori perché non sono “eclatanti”. Lì si deve cercare, o almeno è lì che io ho trovato alcune risposte.

In questi giorni Gerusalemme e Gaza sono tornate alla ribalta, si tratta di un periodo caldo. E, come succede periodicamente da anni, di solito prima o dopo una tornata elettorale da una parte o dall’altra, eccoci di nuovo con i telegiornali che propongono bombardamenti e lancio di sassi. Troppo spesso nell’informazione mainstream mancano dati oggettivi e un minimo di analisi fondata su cause storiche. La narrazione resta immutata e la semplificazione è servita. Non c’è spazio per gli interstizi, non c’è il tempo necessario per capirci qualcosa davvero.

Viviamo in un’epoca in cui le questioni complesse non vanno di moda. Ci piacciono le semplificazioni, le etichette, le tags. Una volta ci piacevano le ideologie, oggi ci piacciono le ideologie e pure le tags…E purtroppo le semplificazioni e le ideologie non sono molto utili alla diffusione di un pensiero critico perché tendono a confermare un pre-concetto o, peggio, un pre-giudizio.

La Palestina è una terra complessa ma in fondo semplice, divisa ma in fondo unita indissolubilmente.

La Palestina vista da una cittadina europea è un luogo in cui i grandi concetti cardine del diritto internazionale, che tanto sangue ci sono costati nel ‘900, finiscono in secondo piano (quando va bene) perché prevalgono le miopie delle ragioni di stato, il peso dei sensi di colpa europei post-olocausto e il gioco degli equilibri geopolitici simil-risiko che da 73 anni in quei luoghi valgono più della vita umana.

Pertanto l’azione urgente necessaria è quella di far cessare l’occupazione. Serve giustizia prima di qualsiasi altra cosa.

E poi è una questione di linguaggio: le parole sono importanti. Non si tratta di un conflitto, un conflitto avviene tra due eserciti, un conflitto avviene tra due Stati sovrani, un conflitto è simmetrico. La Palestina è una terra occupata, in cui l’occupante decide le sorti dell’occupato e in cui l’occupato oscilla tra la resilienza e la resistenza. Quindi, la Palestina è una terra occupata, non in guerra. Non c’è simmetria. E l’elenco delle parole importanti sarebbe lungo: per esempio, muovere delle critiche verso la politica israeliana non significa essere antisemiti. Insomma, con le parole definiamo le situazioni e se le parole non sono accurate, non ci siamo proprio.

La soluzione dei due Stati è fallita? Sì, da un bel pezzo, quindi facciamocene una ragione.

Le nuove generazioni palestinesi e pure qualcuno dal lato israeliano in questi tempi parla una lingua leggermente diversa, usa i social in modo efficace, per la prima volta dopo anni si possono dire finalmente delle cose. Forse qualcosa si muove, forse qualcosa accadrà presto. Forse. O forse no.

Dipende anche da noi.

Noi dal nostro comodo divano europeo dovremmo coltivare il desiderio di un’informazione corretta che vada a scavare negli interstizi, noi dovremmo prenderci la responsabilità di chiedere con forza la fine dell’occupazione israeliana dei Territori palestinesi all’Unione Europea, al Governo italiano e pure al nostro sindaco e dovremmo prendere coraggio e affrontare seriamente il nostro recente passato che tanto pesa nell’interpretazione di un presente che rischia di farci stare dalla parte degli oppressori.

Mi chiamo Marianna, ho 40 anni, sono marchigiana e dal 2006 al 2012 ho vissuto e lavorato nei Territori Palestinesi occupati come cooperante. Ora vivo in Italia ma lavoro ancora per i Territori. Qui ho cercato brevemente di esprimere il mio punto di vista su una terra che per me rappresenta “casa”, una terra che amo in modo particolare. Lo faccio perché me lo chiede un’amica e lo faccio perché sento il dovere di diffondere delle informazioni accurate e basate sulla mia esperienza personale, nella speranza che chi leggerà avrà alcuni elementi in più su cui riflettere. Si tratta di un tentativo, uno dei primi che faccio a dire il vero. Per tanti anni infatti non ho condiviso molto in modo formale o pubblico, avevo (e forse ho ancora oggi) paura perché purtroppo è un tema sul quale, se lavori nei Territori, è meglio mantenere un basso profilo. Grazie per l’attenzione, ora torno negli interstizi.

Alcune fonti:

https://www.invisiblearabs.com/

https://dalvostroinviato.it/

https://www.btselem.org/

https://www.esquireme.com/content/52493-10-great-palestinian-films-to-watch-right-now-for-free?fbclid=IwAR3qNaNKAaNmASbgY2VgHi7eu0OvsV1oclmkGHsVbUQ68kw-3p742js7Kyk

https://www.facebook.com/GazaFREEstyleFestival/

https://www.terrasanta.net/

http://normanfinkelstein.com/

https://www.opendemocracy.net/en/

http://www.assopacepalestina.org/

https://www.artlabjerusalem.org/

https://www.centripeta.org/

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