Di che cosa parliamo quando in sanità parliamo di “territorio”. Seconda puntata: il ruolo dei “piccoli ospedali” nelle normative e nel Recovery Plan.
Uno dei temi più sentiti nel dibattito sulla sanità è quello dei cosiddetti “piccoli ospedali”, che può essere considerato a tutti gli effetti un pezzo importantissimo del tema più generale della sanità del territorio. L’argomento è delicato a partire dalla scelta del termine da utilizzare per definire tali strutture. Infatti, l’uso di espressioni come “ospedaletti” o “ex piccoli ospedali” creano già contrapposizioni perché rimandano a qualcosa di non significativo o di non più attuale. Queste realtà sono invece vissute in molti casi dalle loro comunità come realtà ancora importanti da recuperare, magari in modo aggiornato, al loro vecchio ruolo.
In questa categoria ci sono attualmente nelle Marche almeno 15 strutture così distribuite: Pergola, Cagli, Fossombrone e Sassocorvaro nell’Area Vasta 1 di Pesaro e Urbino; Sassoferrato, Chiaravalle e Loreto nell’Area Vasta 2 di Ancona; Cingoli, Recanati, Tolentino, Treia e Matelica nell’Area vasta 3 di Macerata; Montegiorgio, Sant’Elpidio a Mare e Amandola nell’Area Vasta 4 di Fermo. Già al primo sguardo alla posizione di queste strutture nella cartina delle Marche si vede che esse sono soprattutto a servizio delle aree interne. Queste strutture ne ricomprendono due che hanno già avuto riconosciuto uno status di Ospedale di area disagiata (Pergola e Amandola) mentre le altre tredici sono state riconvertite ad ospedali di comunità, che sono strutture prive di quelle attività e di quelle caratteristiche organizzative tipiche dei “veri” ospedali, piccoli o grandi che siano, e quindi della presenza sia di una attività di ricovero ordinario che di una attività in urgenza nelle 24 ore. In pratica, per farla breve, un ospedale oggi si riconosce per avere una presenza di un medico e di una attività in urgenza a tipo pronto soccorso nell’intero arco della giornata.
Non è questa la sede per entrare nel merito dei dettagli tecnici delle caratteristiche di questi “piccoli ospedali”, ma di tentare di farne un inquadramento in termini di politica sanitaria. Data la delicatezza dell’argomento vale la pena di ricordare che quelle espresse qui sono solo opinioni personali offerte alla riflessione. Vediamo oggi cosa dicono attualmente le normative e gli atti nazionali e regionali. Le normative nazionali sono in pratica rappresentate dal DM 70 del 2015, da molti chiamato il Decreto Balduzzi o “il Balduzzi”. Questo Decreto prevede tre tipologie di ospedali: di base, di primo livello e di secondo livello. Le caratteristiche del più semplice di questi ospedali, quello di base, sono “troppo” per quello che erano i piccoli ospedali prevedendo attività di Medicina Generale, Chirurgia Generale ed Ortopedia oltre che una attività organizzativamente autonoma di Pronto Soccorso. Per aree geografiche distanti dalla rete ospedaliera “vera” il Balduzzi prevede la possibilità del riconoscimento dello status di ospedale di area disagiata il che significa avere la possibilità del ricovero ordinario in area medica, di una attività di chirurgia di giorno e di una attività di Pronto Soccorso. Per avere questo riconoscimento di “zona particolarmente disagiata” occorre che essa sia distante più di 90 minuti dai centri ospedalieri “veri” di riferimento (o 60 minuti dai presidi di pronto soccorso), superando quindi i tempi previsti per un servizio di emergenza efficace. La normativa regionale ha su questa base riconvertito 13 piccoli ospedali in ospedali di comunità e riconosciuto a Pergola ed Amandola lo status di Ospedale di Area disagiata. Il Piano Sociosanitario 2020-2022 della Regione Marche ha “buttato là” un possibile analogo riconoscimento anche per le strutture di Cingoli, Sassocorvaro e Cagli.
A questo punto il termine di Ospedale di Comunità merita di essere commentato perché il rischio (che al momento è una certezza) è quello che sia considerato dalle Comunità interessate e dal dibattito sulla sanità solo una “fregatura” che lo Stato dà alle aree interne attraverso le Regioni che supinamente applicherebbero il Balduzzi. Non è così, o meglio non dovrebbero essere così perché la evoluzione dei vecchi piccoli ospedali è quello che viene previsto anche nel Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR o Recovery Plan come vi pare) come una delle direttrici più importanti della Mission 6 sulla Salute. Vediamo cosa dice il Recovery Plan al riguardo:
“L’investimento mira al potenziamento dell’offerta dell’assistenza intermedia al livello territoriale attraverso l’attivazione dell’Ospedale di Comunità, ovvero una struttura sanitaria della rete territoriale a ricovero breve e destinata a pazienti che necessitano di interventi sanitari a media/bassa intensità clinica e per degenze di breve durata. Tale struttura, di norma dotata di 20 posti letto (fino ad un massimo di 40 posti letto) e a gestione prevalentemente infermieristica, contribuisce ad una maggiore appropriatezza delle cure determinando una riduzione di accessi impropri ai servizi sanitari come ad esempio quelli al pronto soccorso o ad altre strutture di ricovero ospedaliero o il ricorso ad altre prestazioni specialistiche. L’Ospedale di Comunità potrà anche facilitare la transizione dei pazienti dalle strutture ospedaliere per acuti al proprio domicilio, consentendo alle famiglie di avere il tempo necessario per adeguare l’ambiente domestico e renderlo più adatto alle esigenze di cura dei pazienti”.
Per inciso nella documentazione di supporto al Recovery Plan per le Marche si prevede di finanziare 10 strutture di questo tipo. Occorre poi tenere conto che dove c’è un Ospedale di Comunità c’è e ci sarà (magari nella stessa struttura) anche una Casa della Comunità (quella che oggi chiamiamo Casa della salute). Ecco cosa dice al riguardo il Recovery Plan: “La Casa della Comunità diventerà lo strumento attraverso cui coordinare tutti i servizi offerti, in particolare ai malati cronici. Nella Casa della Comunità sarà presente il punto unico di accesso alle prestazioni sanitarie. La Casa della Comunità sarà una struttura fisica in cui opererà un team multidisciplinare di medici di medicina generale, pediatri di libera scelta, medici specialistici, infermieri di comunità, altri professionisti della salute e potrà ospitare anche assistenti sociali. La presenza degli assistenti sociali nelle Case della Comunità rafforzerà il ruolo dei servizi sociali territoriali nonché una loro maggiore integrazione con la componente sanitaria assistenziale.” Per le Marche di Case così se ne prevedono 32.
Questo è dunque il futuro previsto anche dal Recovery Plan per la grande maggioranza dei piccoli ospedali: diventare veri Ospedali di Comunità in una rete territoriale con vere Case della Comunità. Ci torneremo il prossimo sabato.
il ruolo dei “piccoli ospedali” nelle normative e nel Recovery Plan
Uno dei temi più sentiti nel dibattito sulla sanità è quello dei cosiddetti “piccoli ospedali”, che può essere considerato a tutti gli effetti un pezzo importantissimo del tema più generale della sanità del territorio. L’argomento è delicato a partire dalla scelta del termine da utilizzare per definire tali strutture. Infatti, l’uso di espressioni come “ospedaletti” o “ex piccoli ospedali” creano già contrapposizioni perché rimandano a qualcosa di non significativo o di non più attuale. Queste realtà sono invece vissute in molti casi dalle loro comunità come realtà ancora importanti da recuperare, magari in modo aggiornato, al loro vecchio ruolo.
In questa categoria ci sono attualmente nelle Marche almeno 15 strutture così distribuite: Pergola, Cagli, Fossombrone e Sassocorvaro nell’Area Vasta 1 di Pesaro e Urbino; Sassoferrato, Chiaravalle e Loreto nell’Area Vasta 2 di Ancona; Cingoli, Recanati, Tolentino, Treia e Matelica nell’Area vasta 3 di Macerata; Montegiorgio e Sant’Elpidio a Mare nell’Area Vasta 4 di Fermo e Amandola nell’Area Vasta 5 di Ascoli Piceno. Già al primo sguardo alla posizione di queste strutture nella cartina delle Marche si vede che esse sono soprattutto a servizio delle aree interne. Queste strutture ne ricomprendono due che hanno già avuto riconosciuto uno status di Ospedale di area disagiata (Pergola e Amandola) mentre le altre tredici sono state riconvertite ad ospedali di comunità, che sono strutture prive di quelle attività e di quelle caratteristiche organizzative tipiche dei “veri” ospedali, piccoli o grandi che siano, e quindi della presenza sia di una attività di ricovero ordinario che di una attività in urgenza nelle 24 ore. In pratica, per farla breve, un ospedale oggi si riconosce per avere una presenza di un medico e di una attività in urgenza a tipo pronto soccorso nell’intero arco della giornata.
Non è questa la sede per entrare nel merito dei dettagli tecnici delle caratteristiche di questi “piccoli ospedali”, ma di tentare di farne un inquadramento in termini di politica sanitaria. Data la delicatezza dell’argomento vale la pena di ricordare che quelle espresse qui sono solo opinioni personali offerte alla riflessione. Vediamo oggi cosa dicono attualmente le normative e gli atti nazionali e regionali. Le normative nazionali sono in pratica rappresentate dal DM 70 del 2015, da molti chiamato il Decreto Balduzzi o “il Balduzzi”. Questo Decreto prevede tre tipologie di ospedali: di base, di primo livello e di secondo livello. Le caratteristiche del più semplice di questi ospedali, quello di base, sono “troppo” per quello che erano i piccoli ospedali prevedendo attività di Medicina Generale, Chirurgia Generale ed Ortopedia oltre che una attività organizzativamente autonoma di Pronto Soccorso. Per aree geografiche distanti dalla rete ospedaliera “vera” il Balduzzi prevede la possibilità del riconoscimento dello status di ospedale di area disagiata il che significa avere la possibilità del ricovero ordinario in area medica, di una attività di chirurgia di giorno e di una attività di Pronto Soccorso. Per avere questo riconoscimento di “zona particolarmente disagiata” occorre che essa sia distante più di 90 minuti dai centri ospedalieri “veri” di riferimento (o 60 minuti dai presidi di pronto soccorso), superando quindi i tempi previsti per un servizio di emergenza efficace. La normativa regionale ha su questa base riconvertito 13 piccoli ospedali in ospedali di comunità e riconosciuto a Pergola ed Amandola lo status di Ospedale di Area disagiata. Il Piano Sociosanitario 2020-2022 della Regione Marche ha “buttato là” un possibile analogo riconoscimento anche per le strutture di Cingoli, Sassocorvaro e Cagli.
A questo punto il termine di Ospedale di Comunità merita di essere commentato perché il rischio (che al momento è una certezza) è quello che sia considerato dalle Comunità interessate e dal dibattito sulla sanità solo una “fregatura” che lo Stato dà alle aree interne attraverso le Regioni che supinamente applicherebbero il Balduzzi. Non è così, o meglio non dovrebbero essere così perché la evoluzione dei vecchi piccoli ospedali è quello che viene previsto anche nel Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR o Recovery Plan come vi pare) come una delle direttrici più importanti della Mission 6 sulla Salute. Vediamo cosa dice il Recovery Plan al riguardo:
“L’investimento mira al potenziamento dell’offerta dell’assistenza intermedia al livello territoriale attraverso l’attivazione dell’Ospedale di Comunità, ovvero una struttura sanitaria della rete territoriale a ricovero breve e destinata a pazienti che necessitano di interventi sanitari a media/bassa intensità clinica e per degenze di breve durata. Tale struttura, di norma dotata di 20 posti letto (fino ad un massimo di 40 posti letto) e a gestione prevalentemente infermieristica, contribuisce ad una maggiore appropriatezza delle cure determinando una riduzione di accessi impropri ai servizi sanitari come ad esempio quelli al pronto soccorso o ad altre strutture di ricovero ospedaliero o il ricorso ad altre prestazioni specialistiche. L’Ospedale di Comunità potrà anche facilitare la transizione dei pazienti dalle strutture ospedaliere per acuti al proprio domicilio, consentendo alle famiglie di avere il tempo necessario per adeguare l’ambiente domestico e renderlo più adatto alle esigenze di cura dei pazienti”.
Per inciso nella documentazione di supporto al Recovery Plan per le Marche si prevede di finanziare 10 strutture di questo tipo. Occorre poi tenere conto che dove c’è un Ospedale di Comunità c’è e ci sarà (magari nella stessa struttura) anche una Casa della Comunità (quella che oggi chiamiamo Casa della salute). Ecco cosa dice al riguardo il Recovery Plan: “La Casa della Comunità diventerà lo strumento attraverso cui coordinare tutti i servizi offerti, in particolare ai malati cronici. Nella Casa della Comunità sarà presente il punto unico di accesso alle prestazioni sanitarie. La Casa della Comunità sarà una struttura fisica in cui opererà un team multidisciplinare di medici di medicina generale, pediatri di libera scelta, medici specialistici, infermieri di comunità, altri professionisti della salute e potrà ospitare anche assistenti sociali. La presenza degli assistenti sociali nelle Case della Comunità rafforzerà il ruolo dei servizi sociali territoriali nonché una loro maggiore integrazione con la componente sanitaria assistenziale.” Per le Marche di Case così se ne prevedono 32.
Questo è dunque il futuro previsto anche dal Recovery Plan per la grande maggioranza dei piccoli ospedali: diventare veri Ospedali di Comunità in una rete territoriale con vere Case della Comunità. Ci torneremo il prossimo sabato.
Claudio Maria Maffei
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